Mandorle amare.

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Mandorle amare.

L’altro giorno un’amica mi ha invitato a schiacciare le mandorle con le quali preparare i dolci di Natale. Dopo i sorrisi al pensiero gioioso, all’aria di festa buona di questo periodo, una volta chiusa la conversazione sono rimasto solo. Solo con le mie mandorle e pensieri tornati su come fumi sporchi. I ricordi, a volte, tornano a infiammarti come le madeleine con Proust.

Ero, ricordo, un ragazzino di seconda media (quanti anni può avere un ragazzino di seconda media?) e all’alba bisognava andare in campagna, dove la famiglia di papà aveva da poco comprato un pezzo di terra coltivato a mandorleto, sul lungo rettilineo che da Sannicandro si arrampicava fino a Cassano Murge. Occorreva, quindi, andare a raccogliere le mandorle e alzare il muro di recinzione, prima ancora di costruire una casa nel campo. Bisognava partire la mattina presto, prima che il sole scaldasse troppo.

Ero tanto eccitato perché potevo rendermi utile, imparare, fare lavori da grandi e con i grandi e, come mio padre mi disse: “Vedrai che lo zio ti da’ pure una cosa di soldi”.  Tra tutti i (tanti) nipoti scelsero di portare me, perché ero volenteroso, instancabile, entusiasta. Non un peso, insomma, ma un aiuto concreto. Gli altri avrebbero preteso di essere pagati (“Pagati? Questa terra è pure vostra!”) o si sarebbero stancati o annoiati (“La zavorra non la vogliamo!”).

Appena arrivati, per prima cosa scaricammo uno a uno tutti i grossi tufi gialli, trasportandoli in fondo al campo, dove stava crescendo il muro. Io non avevo mai costruito un muro prima d’allora, se non di Lego (quanti anni può avere un ragazzino di seconda media?), loro erano tre zii esperti, lavoranti per una importante ditta di costruzioni edili. Poi c’era mio padre che faceva compagnia, facendo cadere la mìnua dagli alberi, le mandorle.

“Che devo fare?”, chiedevo.

Nessuno mi spiegò, ma vedevo come facevano loro, più o meno. E più o meno era come montare i Lego: si impilavano uno sull’altro, solo un po’ sfalsati e con una manciata di malta spalmata in mezzo. Loro tre, gli zii, erano veloci e coordinati (malta, mattone, sgrattare), io cercai di stare appresso: impastavo la malta, impilavo i tufi, con il bordo della paletta grattavo via dalla superficie ruvida le imperfezioni a forma di conchiglia che risultavano nel mattone. Malta, mattone, sgrattare. Malta, mattone, sgrattare.

Forse non ero abbastanza veloce, oppure non abbastanza preciso, o forse sgrattavo troppo, o troppo poco. Ad un certo punto mi arrivò un forte, fortissimo calcio. Un fortissimo calcio nel culo, accompagnato da una brutta bestemmia e un “Che cazzo stai facendo?”. Io feci un volo di non so quanti metri, cadendo di faccia a terra, tra le pietre. Persi gli occhiali, li ritrovai. Quanti anni? 11? 12? Sentii loro sghignazzare. Io avevo il fuoco in faccia e le pietroline nelle ginocchia e nei palmi delle mani. Avrei voluto urlare e piangere di rabbia, umiliazione e vergogna, spaccare tutto. Eravamo però in piena campagna e io ero solo un ragazzino. Io e loro. Loro continuavano a lavorare al loro muro di merda, mio padre non disse mezza parola né a me né ai suoi fratelli. Rimasi fermo, appoggiato a un muretto per il resto del tempo. Si sentivano cicale e scirocco negli alberi. Poi gli alberi sparirono, rimase il deserto e il rumore del vento.

Quando rientrammo, a papà diedero un sacco piccolo di mandorle da schiacciare. Mamma mi vide tornare strappato e ferito e non mi chiese.

“A volte le mandorle sono amare”, disse solo, “Sono amare perché hanno il male dentro”.

 

Michele Lamacchia

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