
Amiche e amici, come state? Io bene, ero qui con mia figlia e vi riporto il dialogo:
Io: “Che guardi, amore?”
Lei: “Anime”
Io: “E CI JE’, L’ESORCIST?”
La cultura giapponese ci ha sempre incuriositi e, in qualche modo, condizionati. I cartoni giapponesi (gli anime) hanno rappresentato una parte fondamentale per lo sviluppo critico ed emotivo per tutti, a partire da chi è cresciuto negli anni ’80, fino ai giorni nostri. Chi come me non ha potuto avere un vero padre, ha potuto sperare di essere salvato da Naoto Date alias Tigerman e da questi apprendere le tecniche e le strategie per sopravvivere per le strade dei quartieri malfamati di Bari. O, più tardi, imparare i rudimenti dell’educazione sessuo-affettiva da Occhi di Gatto, per esempio. Ma sto divagando, scusate. Non solo anime ma anche auto e moto tra le più richieste nel mondo, cibo tipico come sushi, sashimi, ramen, etc., karate e judo e altre forme di intrattenimento ludico, i caratteri hiragana, katakana e kanji con cui addobbiamo inconsapevoli i nostri corpi con tatuaggi dal significato oscuro, e carpe, geishe, samurai, monte fuji: tutte quelle componenti che fanno del Giappone e del giapponismo una delle culture più straordinarie e riconoscibili di tutti i tempi. Ma a proposito di Giappone.





Se siete a Bologna o pensate di andarci, non potete perdervi Graphic Japan, un’esposizione che è un viaggio: non solo estetico, ma storico, antropologico, emotivo. Il Paese del Sol Levante sempre così lontano e così misteriosamente affascinante!
L’esposizione è molto ben fatta, estesa in un percorso che non alza mai la voce. La grafica giapponese ha questa qualità unica: ti parla senza urlare. Anche quando è vivace, anche quando osa, mantiene una compostezza che è difficile non ammirare, in un percorso che va dalle radici — le stampe ukiyo-e che, già nell’Ottocento, influenzarono l’Europa — fino alle sperimentazioni del secondo dopoguerra e ai linguaggi più contemporanei.




“Articolata in quattro sezioni – Motivi di Natura, Volti e Maschere, Calligrafia e tipografia, Giapponismo – la mostra racconta lo sviluppo del segno grafico nipponico dalle stampe ukiyo-e ai manga, passando per poster d’artista, design, moda, cinema e fumetto. Un viaggio che testimonia la capacità della cultura visiva giapponese di rinnovarsi nel tempo senza perdere la propria identità.”


Il primo grande incontro è con Tadanori Yokoo, e lì capisci perché il suo nome sia diventato un riferimento internazionale, dove la tradizione si scontra con il pop. I suoi poster, pieni di stratificazioni visive e rimandi culturali, sembrano dirti: “Il Giappone è complesso. Portati tempo.” E tu il tempo te lo prendi: tradizione, psichedelia, ironia e identità convivono senza scontrarsi, in una produzione ipnotica.

Di fronte ai manifesti di Ikko Tanaka, invece, il ritmo cambia. La sua è grammatica della semplicità. Le linee diventano essenziali, i colori misurati, la composizione quasi matematica. La sua celebre reinterpretazione della figura della geisha — fatta di forme geometriche purissime — continua a sembrare un’opera che potrebbe essere nata ieri. È la prova che il minimalismo, quando ha una cultura solida alle spalle, non è mai moda: è metodo.


Poi, all’improvviso, ti trovi davanti a Shigeo Fukuda, che della grafica ha fatto un luogo di sorprese: illusioni ottiche, ribaltamenti visivi, ironia sottilissima, giochi di percezione. È il momento in cui la mostra sorride, senza perdere complessità. E capisci una cosa semplice: anche la leggerezza può essere profondissima, se usata bene.
Il merito della mostra è mostrare come la grafica giapponese abbia dialogato con l’Occidente senza subirlo, continuando a influenzare il mondo: dagli ukiyo-e alla Parigi di fin de siècle, dai poster modernisti alle avanguardie europee, fino al design globale contemporaneo.







Non c’è imitazione: c’è scambio. Ed è bello vedere come alcuni dei designer esposti abbiano contribuito a definire un linguaggio ormai universalmente riconoscibile, in cui pulizia, equilibrio e sperimentazione convivono con naturalezza.
Uscendo, mi sono sorpreso a pensare a quanto questa estetica — così rigorosa, così mobile — abbia già filtrato da decenni nelle nostre vite, spesso senza che ce ne accorgessimo. Nei poster minimalisti che oggi invadono le nostre case, nelle interfacce che usiamo ogni giorno, perfino nella nostra idea di “ordine visivo”: un’eredità sotterranea che parla giapponese anche quando non lo sappiamo.





E forse il punto è proprio questo: la grafica che vediamo in mostra non è lontana da noi. È figlia della stessa immaginazione che ci ha cresciuti a pane e cartoni animati giapponesi, quei mondi dove colori, linee e simboli non erano solo sfondo, ma parte viva della storia. Da Heidi a Holmes, da Sailor Moon a Neon Genesis Evangelion, abbiamo imparato — senza farci troppo caso — che il disegno può educare lo sguardo, allargare le possibilità, dare forma al futuro prima ancora che qualcuno lo immagini davvero.
Graphic Japan colpisce così tanto perché non racconta solo la storia di un design, ma un pezzo della nostra formazione culturale. Ci ricorda che siamo diventati adulti in mezzo a colori che venivano da lontano, e che quell’alfabeto visivo continua a guidarci.
In fondo, siamo tutti un po’ figli (a volte orfani) di quei colori lì.
つづく



























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