Stadi e simboli: il MAXXI alla prova dell’identità culturale

Amiche e amici, come state? Io bene, ero qui con il mio amico d’infanzia che ricordavamo con nostalgia di quando, durante un Bari – Juventus, fummo caricati coi manganelli senza essere un pericolo per l’ordine pubblico. Che tempi! E avevamo 15 anni! Mi sono sempre piaciuti gli stadi, anche se a un certo punto, dopo tante e tante di quelle mazzate, non ci sono più andato. Ma di questo ne parleremo in un altro post.

Ma a me mi piacciono gli stadi, concentratori di emozioni. E per gli amanti del genere, non perdete la mostra Stadi. Architettura e mito.

Il MAXXI consegna al pubblico un percorso ambizioso, un viaggio che va dal Panathinaiko di Atene al colossale world building di stadi contemporanei, passando per cultura sportiva, sociologia urbana, fotografia e design: lo stadio di Braga, ricavato da una cava, è un esempio emblematico di architettura integrata agli spazi geografici; l’Allianz Arena e il Bird’s Nest cinese raccontano una “pacifica invasione visiva”, più celebri per la loro “pelle” architettonica che per gli eventi al loro interno… Dall’Artemis greca al Colosseo, fino al San Nicola di Bari di Renzo Piano e al Ferraris di Gregotti, la mostra traccia un ponte tra antico e contemporaneo. Spiccano modelli e progetti fotografici – come quelli di Ghirri, Barbieri e Ancarani – che restituiscono le strutture sportive come veri “templi laici”. E poi le Coppe Rimet (1934, 1938) e i titoli calcistici (1982, 2006) della Nazionale italiana, non semplici cimeli, ma frammenti di una memoria collettiva che parla di ritrovata unità nazionale e senso del rito sportivo.

La mostra si apre con questo ritratto in video, Zidane, A 21st Century Portrait di Douglas Gordon & Philippe Parreno, girato durante una partita tra Real Madrid e Villarreal nel 2005. Un vero incipit: sedici telecamere ci avvolgono nel gesto atletico, trasformando lo stadio in un luogo di contemplazione attiva. Il video su Zidane è una scelta magnetica: rende il campione un simbolo, e lo stadio un organismo respirante.

Stadi. Architettura e mito è senza dubbio un’operazione coraggiosa: la sua ambizione è grande, l’apparato iconografico e progettuale notevole, le curiosità numerose e stimolanti. Eppure, nel tentativo di abbracciare tutto – storia, mito, passione, politiche urbane – il percorso rischia di perdere fluidità. Rimangono però momenti davvero vivi, come il video su Zidane, e l’allestimento dei trofei azzurri, che rendono la visita memorabile.

Quello degli stadi è un tema di forte richiamo popolare, presentato con ricchezza di materiali, ma accompagnato da un allestimento che – secondo diversi osservatori – mostra limiti narrativi. E ora, io due parole le vorrei dire.

Chi frequenta il MAXXI da anni lo sa: il museo è stato, fin dalla sua apertura, un osservatorio vibrante sul contemporaneo. Non solo arte, ma architettura, urbanistica, fotografia, politica culturale. Un laboratorio. E anche un termometro. Perché osservare cosa espone un museo pubblico significa, spesso, osservare che cosa uno Stato – più o meno consapevolmente – ritiene degno di essere raccontato.

Negli ultimi mesi, però, qualcosa sembra essersi spostato. Le mostre sono sempre più articolate, più “popolari” nei temi. Ma lo sono anche nei contenuti? O meglio: si è alzata la voce, ma si è abbassata la soglia della complessità?

La sensazione – condivisa da più voci nel mondo dell’arte, anche se raramente esplicitata con chiarezza – è che la qualità curatoriale delle selezioni stia soffrendo. Non tanto per mancanza di competenza (le professionalità ci sono, e sono solide), quanto per un cambio sottile ma tangibile di linea: meno rischio, più rassicurazione. Meno ricerca, più celebrazione. Meno domande scomode, più narrativa coesa.

Mostre come Stadi. Architettura e mito portano temi apparentemente trasversali e innocui, ma la scelta di accostare antichità classica, sport nazionale e monumentalità architettonica non è mai neutra. Lo è ancora meno in un momento politico in cui il linguaggio identitario torna a essere un terreno sensibile. Non è questione di etichette ideologiche (non si può parlare di “mostre di destra”, è un’espressione fragile e imprecisa), ma di atmosfere, priorità, omissioni. E l’omissione, in ambito culturale, è sempre un atto.

Ci si chiede allora: il MAXXI è ancora il luogo in cui si sperimentano sguardi laterali, voci marginali, ipotesi alternative? O sta lentamente diventando una vetrina ben disegnata, e ben ripulita, delle immagini che ci si aspetta di vedere?

Forse non è ancora troppo tardi per tornare a pensare che il museo non debba solo piacere. Deve anche spostare, disturbare, far riflettere. Perché la cultura, quella vera, non è mai accomodante.

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi

La mascotte di Italia ’90 “Ciao”, a mio parere, una delle cose più brutte che il design italiano, brand stranoto e riconosciuto nel mondo, sia mai riuscito a produrre.

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