Dentro la trilogia di K. La verità? Oltreconfine.

«La vita è di un’inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.»

Amiche e amici, come state? Io stavo rileggendo dei testi in cui l’autore racconta una verità che poi si scopre essere tutta un’altra, dove accusa gli altri di inventare fatti e scenari, ma facendolo tramite una narrazione di sé fatta di fatti e scenari del tutto manipolati, falsi, inventati.

Ma a proposito di verità manipolate, di realtà filtrate, di inaffidabilità delle voci narranti. Ho appena finito uno dei libri più strazianti di sempre. Sto parlando della Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf (Einaudi), uno di quei libri che ti prendono per i capelli, ti scuotono e ti lasciano a terra con la sensazione che la narrativa possa essere più crudele della realtà stessa.

«A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.»

La scrittura come taglio di bisturi

Kristóf non ha mai tempo da perdere: scrive con una prosa affilata, scheletrica, che fa dell’ellissi la sua arma preferita. Frasi brevi, quasi infantili, che nascondono però un mondo intriso di orrore, di abbandono, di menzogna. Non c’è compiacimento, non c’è bellezza consolatoria: c’è la brutalità della vita nuda. In questo stile scarnificato, a metà tra un rapporto di polizia e una fiaba nera, sta la sua forza.

«La chiamiamo Nonna. La gente la chiama la Strega. Lei ci chiama figli di cagna.»

I gemelli, il doppio, il vuoto

Al centro della trilogia ci sono Lucas e Claus, gemelli speculari, complementari e intercambiabili. Ma chi racconta, davvero? Chi resta? Chi mente? Il lettore si trova costretto a interrogare la verità come davanti a un vetro rotto: i riflessi si moltiplicano, la realtà si sfalda. Qui Kristóf gioca con l’identità, con l’inaffidabilità della memoria, con la manipolazione della scrittura stessa. Non c’è mai una risposta univoca, e il dubbio diventa parte integrante della lettura.

«Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.»

Una fiaba crudele sull’Europa del Novecento

La città di K. è ovunque e in nessun luogo: un paese di confine, devastato dalla guerra, con regimi che si avvicendano, occupazioni straniere, frontiere invalicabili. È l’Europa centrale della seconda metà del Novecento, ma anche il luogo universale dell’oppressione. Kristóf ci dice: non c’è redenzione, non c’è giustizia, ci sono solo esseri umani che si aggrappano alla sopravvivenza, spesso disumanizzandosi.

«Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia.

Perché leggerla (anche se fa male)

La Trilogia della città di K. non è un libro che si legge con leggerezza, non è compagnia da comodino sereno. È piuttosto un’esperienza che ti rimane addosso, come l’odore di fumo dopo un incendio. Kristóf mostra che la letteratura può spogliarsi di qualsiasi ornamento e restare comunque, o proprio per questo, devastante. È una lezione di scrittura e insieme una parabola sull’identità, sulla menzogna, sull’essere vivi in tempi disumani.

E quando chiudete l’ultima pagina vi resta addosso una certezza: non saprete mai dove finisce la verità e dove comincia la menzogna, la manipolazione, l’invenzione. Né il suo perché.


Michele Lamacchia

Le parole creano mondi


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