La costruzione magica nella pittura di Gianfranco Goberti

Ciao amiche e amici. Come state? Io bene. Vi ho mai raccontato di quel collega con cui andavo a cena che prima di uscire indossava la camicia più lurida che aveva e poi un giorno gli chiesi perché lo facesse e mi confessò di essere un genio iperrealista e tanto già sapeva che si sarebbe sporcato mangiando e quindi era la cosa giusta da fare? Un artista. Ma a proposito di artisti e geni dell’iperrealismo. Abbiamo visitato per voi la mostra Gianfranco Goberti. La magia della pittura un’esperienza visiva che sembra dialogare con lo spettatore più di quanto l’occhio non faccia con il cervello. È una pittura che non si concede subito, e forse è proprio in questa sua resistenza che risiede la magia evocata dal titolo. Nelle sale del piano nobile del Castello Estense di Ferrara, questa retrospettiva — la prima dopo la scomparsa dell’artista — offre uno sguardo penetrante sull’opera di uno dei pittori ferraresi più originali del secondo Novecento.


Per chi non lo sapesse (nemmeno io lo sapevo, ma ne sono rimasto incantato), mi sono informato per voi: Gianfranco Goberti nasce nel 1939 e fin da giovane si forma artisticamente tra l’Istituto d’Arte Dosso Dossi e l’Accademia di Belle Arti di Bologna, per poi intraprendere un cammino creativo segnato dalla tensione tra percezione visiva e realtà rappresentata (una sorta di “inganno” per gli occhi). La sua carriera si estende per oltre mezzo secolo, attraversando correnti, suggestioni e sperimentazioni senza mai perdere un’identità forte e coerente. La sua è una ricerca strutturata, portata avanti per decenni con rigore quasi etico, in cui la pittura resta il centro di ogni indagine, anche quando dialoga con fotografia, video o installazione.

Negli anni successivi alla sua formazione, Goberti insegna progettazione pittorica ed educazione visiva proprio all’Istituto Dosso Dossi, assumendo poi la presidenza dal 1982 al 1992 — ruolo in cui segna fortemente le nuove generazioni, instaurando un dialogo tra pratica artistica e didattica.

Dopo questa digressione, tuffiamoci nella mostra!


Il percorso artistico: dagli esordi alla maturità

Il percorso espositivo accompagna il visitatore attraverso le diverse stagioni della sua produzione, mostrando come l’opera di Goberti sia attraversata da un’unica, costante domanda: che cosa vediamo davvero quando guardiamo un’immagine? Le prime opere, quelle degli anni Sessanta quando dopo una stagione iniziale legata all’informale, Goberti muove i suoi primi passi nel contesto della Nuova figurazione, rivelano un passaggio dall’informale a una figurazione già inquieta, instabile, dove gli oggetti sembrano trattenere una tensione interna.

È nei successivi Settanta che la sua poetica si chiarisce con forza, grazie a quella che è stata spesso definita una declinazione personale dell’optical figurativo, ma che in Goberti diventa qualcosa di più intimo e concettuale. In queste tele già si avverte un’idea centrale: la pittura non come copia del mondo, ma come arena percettiva. Specchi, poltrone a righe e superfici riflettenti diventano strumenti iconici per investigare il rapporto tra realtà e immagine, tra ciò che si vede e ciò che si crede di vedere. In queste opere, la pittura non rappresenta più: dialoga.

Negli anni Ottanta e Novanta la ricerca di Goberti non si arresta. Sedie, poltrone, camicie, cravatte, specchi: oggetti comuni, quotidiani, apparentemente innocui sono scomposti, ingranditi, quasi digeriti fino a diventare segni evocativi di un mondo visivo dalle leggi proprie. L’oggetto diventa un campo di sperimentazione visiva piuttosto che un semplice soggetto da rappresentare. La rappresentazione diventa metafora, e la pittura, contemplazione. Eppure, sotto il suo sguardo, perdono ogni funzione rassicurante. Le superfici si moltiplicano, i riflessi si contraddicono, le linee vibrano fino a mettere in crisi la percezione. Non c’è mai compiacimento virtuosistico, ma una sottile inquietudine che attraversa la tela.


Opera dopo opera: i momenti chiave della mostra

“Poltrona riflessa”

Presente tra le opere più citate nella mostra, questa tela degli anni Sessanta è paradigmatica della visione gobertiana: una poltrona che non si limita ad essere oggetto, ma si apre in un gioco di riflessi, superfici, rimandi visivi che trascendono la mera apparenza. L’oggetto diventa soglia tra il visibile e l’immaginario.

Specchi e trompe-l’œil

Alcune opere giocano apertamente con il trompe-l’œil, integrando elementi fotografici o simulando aperture e profondità che sembrano sfidare il piano pittorico. Questi lavori non ingannano semplicemente l’occhio, ma interrogano il senso stesso della visione e della rappresentazione. Ma l’inganno non è fine a sé stesso. Ogni illusione visiva è una domanda sulla natura dell’immagine, sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ciò che crediamo di vedere e ciò che effettivamente vediamo.

I cicli delle corde

Iconici per la loro densità formale, i lavori dedicati alle corde portano con sé una tensione visiva e concettuale: intrecci pittorici che sembrano trattenere lo spazio, legarlo, comprimerlo, si avvolgono e sembrano ancorare lo sguardo alla tela, in un equilibrio che è al contempo fisico e mentale. Anche quando il riferimento figurativo resta riconoscibile, l’interesse dell’artista si sposta verso la struttura dell’immagine e il suo equilibrio interno.

Il mito di Icaro

Tra i cicli più recenti, le opere ispirate al mito di Icaro risuonano di una potente metafora umana: l’ambizione, la caduta, ma soprattutto la tensione tra desiderio e limite, in una dimensione più simbolica e narrativa, verso ciò che è oltre. La pittura qui diventa specchio dell’esistenza.


Extra: video e sperimentazioni

La mostra restituisce anche il Goberti sperimentatore, curioso dei linguaggi audiovisivi, capace di estendere la sua riflessione oltre la tela senza mai tradirla. I video storici presenti nel percorso non sono deviazioni, ma naturali estensioni di una ricerca che ha sempre avuto al centro la percezione e il suo inganno. Sono presentati anche due videotape storici, Metagrafica (1977) e Verde carminio (1983), prodotti dal Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti. Questi lavori documentano le esperienze extra-pittoriche di Goberti, rivelando un artista curioso delle possibilità espressive offerte dai nuovi media, anche qui affrontando problemi analoghi a quelli della pittura: il rapporto tra immagine, superficie e percezione, confermando una ricerca coerente anche quando cambia mezzo.


In conclusione: la magia della pittura

Questa mostra è un invito a pensare con gli occhi e vedere con la mente. In un percorso che attraversa oltre quaranta opere, risulta chiaro quanto Goberti non sia stato soltanto un pittore, ma un vero e proprio teorico della percezione visiva. La sua arte non si limita a rappresentare forme: le mette in dialogo, in conflitto, le rende vive e pensanti. L’artista non chiede di essere ricordato come un maestro, ma come un interlocutore. La sua pittura non dà risposte, non consola, non semplifica. Piuttosto, apre fenditure nel visibile, invita a sostare nell’ambiguità, a riconoscere che ogni immagine è un territorio instabile.

La magia — come suggerisce il titolo — non è un vezzo di marketing, ma la qualità stessa di un artista che ha saputo trasformare la pittura in esperienza. Magia non come trucco, ma come atto di conoscenza che oggi, nel cuore della sua città natale, ci invita a guardare oltre la tela.

In un tempo che consuma immagini con distrazione compulsiva, l’opera di Gianfranco Goberti ci ricorda che guardare è un gesto complesso, fragile, profondamente umano. E che, spesso, una macchia sulla camicia non è solo una macchia sulla camicia.

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi


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