Ciao amiche e amici, come state? Io bene. Ero qui a ricordare coi miei fratelli della nostra infanzia al Quartier San Paolo di Bari. Che bello quando papà tornava dal lavoro la sera e ci diceva: “non uscite che stanno sparando”. Che tempi! Ora le cose sono cambiate: hanno addirittura disegnato i parcheggi per strada. Ma a proposito di guerre tra clan, una tra le più attive testimoni della storia italiana è senza dubbio la fotografa palermitana Letizia Battaglia.








La mostra Letizia Battaglia. L’opera 1970–2020, ospitata al Museo Civico San Domenico di Forlì, è una retrospettiva ampia e ben costruita che permette di attraversare cinquant’anni di lavoro di una delle figure centrali della fotografia italiana del Novecento. Non si tratta solo di un omaggio a una fotografa ormai consegnata alla storia, ma di un percorso che aiuta a capire come le immagini di Battaglia siano nate, in quale contesto e con quali intenzioni. Entrare alla mostra significa accettare un patto silenzioso: quello di guardare senza protezioni. Non c’è distanza di sicurezza tra chi osserva e ciò che viene osservato, perché la fotografia di Letizia Battaglia non è mai stata un esercizio estetico, ma una forma di presenza. Presenza nei luoghi, nei corpi, nelle ferite della storia. Presenza dentro una realtà da attraversare, non semplicemente da raccontare.




Il percorso espositivo, ampio e stratificato, accompagna il visitatore lungo cinquant’anni di lavoro che coincidono con cinquant’anni di coscienza civile. Battaglia arriva alla fotografia relativamente tardi, dopo una vita già segnata da scelte difficili e da una tensione costante verso la libertà. Forse è anche per questo che il suo sguardo non ha mai l’ingenuità dell’esordio: ogni immagine sembra già consapevole del peso che porta con sé. Quando, negli anni Settanta, inizia a lavorare per il quotidiano L’Ora di Palermo, la macchina fotografica diventa uno strumento di resistenza. Non un’arma, ma qualcosa di più scomodo: un occhio che non si chiude.





Qui prende forma la parte più conosciuta del suo archivio: la documentazione delle guerre di mafia, degli omicidi, dei processi, degli arresti. Le fotografie esposte in questa sezione colpiscono ancora oggi per la loro frontalità. Battaglia fotografa da vicino, senza cercare inquadrature spettacolari o soluzioni formali elaborate. L’urgenza è quella di registrare i fatti e di renderli visibili, in un momento in cui raccontare certe storie significava esporsi in prima persona. Le fotografie della violenza mafiosa, cuore inevitabile della mostra, non concedono allo spettatore il conforto della spettacolarizzazione. I cadaveri sull’asfalto, i volti irrigiditi dalla morte, le scene del crimine colte con una vicinanza quasi insostenibile non sono immagini rubate, ma immagini assunte. Battaglia non guarda dall’alto, non cerca l’effetto, non costruisce icone. Sta. E questo stare, così ostinato, trasforma la cronaca in memoria condivisa. Quelle fotografie non spiegano, non commentano: testimoniano. E nel farlo chiedono a chi guarda di assumersi una parte di responsabilità.




Ma ridurre Letizia Battaglia alla fotografa della mafia sarebbe un errore, e la mostra ha il merito di smontare questa semplificazione. Accanto alla morte, c’è la vita che resiste e insiste. Le bambine di Palermo, con gli sguardi diretti e fieri, attraversano le sale come presenze ricorrenti, quasi un controcanto. I giochi per strada, le feste popolari, le donne colte nella loro quotidianità restituiscono una città complessa, mai riducibile a un solo racconto. Palermo, nelle sue immagini, non è sfondo ma soggetto: ferita e insieme possibilità.
Il bianco e nero di Battaglia non è mai neutro. È una scelta etica prima ancora che formale. Toglie l’alibi della bellezza facile, costringe a concentrarsi sui volti, sui gesti, sugli sguardi. In questo senso la mostra non è solo una retrospettiva, ma una riflessione sul ruolo stesso della fotografia. Qui l’immagine interroga il mondo, non lo decora. Non consola, non addolcisce, non chiude. Rimane aperta, come una domanda che continua a risuonare anche dopo l’uscita.









La “bambina con il pallone”
Tra gli scatti più iconici — e che probabilmente trovi alla mostra — c’è quello di una bambina nel quartiere della Cala a Palermo, intenta a giocare con un pallone. Quell’immagine è molto più di un gioco: è un simbolo di innocenza in mezzo alla miseria, di un futuro sospeso tra speranza e ombra. La foto, nitida e senza artifici, dice di una città dove anche i bambini diventano leggenda se guardati negli occhi. Nel mezzo della mostra è stata allestita una sala cinema in cui viene proiettato un documentario molto bello, emozionante, con la diretta testimonianza dell’artista e reporter. Lei racconta che a un certo punto rimaneva incantata, bloccata, incatenata allo sguardo di certe bambine. Non riusciva a non fermarsi, e a fotografarle.
“Ho capito che in loro cerco qualcosa che si è spezzato in me a quell’età”, dice. Chi, come me, fa psicoterapia saprà esattamente di che stiamo parlando, quali sono quelle dinamiche che ci strappano le viscere e ce le portano appresso per la via. Io personalmente ho pianto tre volte nel visitare tuta l’esposizione. Due e mezzo, perché alla terza stavo per, ma di fianco a me una signora col cellulare ha deciso di chiamare qualcuno per parlare di [cose inutili e grottesche].




Colpisce, lungo il percorso, la coerenza di una vita che non ha mai separato l’arte dall’impegno. Battaglia è stata fotografa, ma anche editrice, attivista, amministratrice pubblica, donna profondamente politica nel senso più radicale del termine: quello che riguarda la polis, la comunità, la responsabilità verso gli altri. Riviste, giornali e materiali d’archivio permettono di capire come il suo lavoro non si sia limitato alla produzione di immagini, ma abbia coinvolto anche la costruzione di luoghi di confronto e di informazione. Questo contribuisce a restituire un ritratto più completo dell’autrice, inserendola all’interno di una rete di relazioni, collaborazioni e impegno civile. Le tracce di questo impegno emergono tra le immagini, nei materiali editoriali, nei segni di un lavoro che non si è mai accontentato di osservare il mondo, ma ha tentato di cambiarlo, almeno un poco.




Nel complesso, Letizia Battaglia. L’opera 1970–2020 è una mostra chiara, accessibile e ben organizzata, che evita sia la celebrazione acritica sia la semplificazione. Il valore del progetto sta nella capacità di restituire il lavoro di una fotografa nel suo contesto storico e umano, lasciando che siano le immagini, più che i commenti, a parlare.
Uscendo dalla mostra, resta addosso una sensazione difficile da definire. Non è ammirazione pura, non è dolore soltanto. È piuttosto una forma di vigilanza. Le fotografie di Letizia Battaglia continuano a parlare perché non appartengono al passato, ma a una domanda ancora aperta sul nostro modo di guardare, di partecipare, di non voltare la testa dall’altra parte.
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