
Vivere è provare dolore, si era detto, e vivere con la paura del dolore significa non voler vivere.
Amiche e amici, come state? Io bene anche se l’ultima volta ho chiesto alla psy di aiutarmi a estirpare questa cosa che piango: piango a vedere un film, piango davanti a un quadro, piango a una musica, a un odore, a un pensiero. E per tutta risposta, lei mi fa: “si prepari perché col tempo può solo peggiorare”. Alé!
E ho pianto anche leggendo Baumgartner, l’ultimo libro di Paul Auster, pubblicato da Einaudi. Tre volte, ma non vi dirò molto: ognuno è come è, magari a voi fanno piangere cose diverse, oppure è “il periodo”, chi lo sa. Con questo libro delicato Auster, noto per la sua capacità di esplorare i recessi più profondi dell’animo umano, ritorna a uno stile più intimo e introspettivo, concentrandosi su un solo personaggio in una storia che esplora la memoria, la solitudine e il significato dell’esistenza.
Il romanzo, nella felice traduzione di Cristiana Mennella, racconta la vita di Sy Baumgartner, un anziano professore in pensione che, dopo la morte della moglie, si ritrova a fare i conti con il passato e con i fantasmi della sua vita. La narrazione si sviluppa in una serie di ricordi, riflessioni e momenti di quiete, con Baumgartner che si interroga su ciò che ha significato la sua esistenza e su come il tempo abbia plasmato la sua identità. La trama, volutamente minimalista, è un pretesto per esplorare i temi della perdita, dell’amore e del passare del tempo.
L’atmosfera del libro è dolce e malinconica, con un tono meditativo che pervade ogni pagina. Auster utilizza un linguaggio semplice ma potentemente evocativo, capace di trasmettere il senso di isolamento e di introspezione che caratterizza la vita di Baumgartner. Bada bene: il nostro eroe non è certo uno che (tipo me) si piange addosso, ma al contrario vive ogni giorno come un regalo, un miracolo da celebrare ché non-si-sa-mai. E infatti non si arrende agli acciacchi, alle erbacce, alle ripartenze.
Auster adotta uno stile narrativo sobrio e contenuto, in cui ogni parola sembra scelta con cura per esprimere al meglio i sentimenti del protagonista. Il ritmo costante della narrazione invita il lettore a immergersi completamente nel mondo interiore del protagonista, permettendo una profonda connessione emotiva. La prosa è fluida e avvolgente: io l’ho letto in poco più di due giorni, incollato anche senza barocchi plot twist. È un libro che richiede al lettore pazienza e introspezione, ma che in cambio offre una comprensione più profonda di ciò che significa essere umani.
“Don’t look back in anger, I heard you say.”
Essere umani.
A seguire, sottolineature che ho preso dal testo:
Appena si mise seduto, il ragazzo si voltò verso di me e disse: ⁃ Sbaglio o noi due ci conosciamo?
⁃ Conosciamo è una parola grossa, ⁃ risposi, ⁃ ma ci siamo visti una volta. Parecchi mesi fa, in un negozio dell’usato a una decina di isolati a sud di qui, Se ricordo bene, eri immerso fino alle ginocchia in un barile di pentole.– Esatto! – disse lui. ⁃ Il vecchio rigattiere tra Amsterdam e la Novantottesima! Ci siamo scambiati un sorriso, vero?
Appena disse la parola sorriso, gliene spuntò un altro, molto più grande di quello che mi aveva fatto in autunno, e quando io gli risposi con un sorriso ancora più grande, sentii che era appena successo qualcosa di strano. Non per i sorrisi, almeno non solo, ma perché era strano che entrambi ricordassimo quell’attimo fuggente di molti mesi prima, e perché era doppiamente strano che, siccome lo ricordavamo entrambi, ci comportassimo come se quel ricordo avesse creato un legame tra noi, mentre la verità era che non sapevamo ancora niente l’uno dell’altra.Un piccolo sorriso in autunno, un altro incontro casuale in primavera, e adesso un gran sorriso – quello che ci era successo non andava oltre, eppure era come se ormai ci conoscessimo da tempo, e forse era cosi, perché era evidente che ognuno di noi aveva pensato all’altro di tanto in tanto nei molti mesi trascorsi tra allora e adesso, e adesso che il destino ci aveva messi insieme per la seconda volta, intuivo che eravamo entrambi decisi a non rovinare di nuovo tutto lasciando passare quel momento.
Questi qua sotto sembrano i miei appunti, sparsi dappertutto, uguale:
Tuttavia c’è di più, molto di più. Non solo gli scritti autobiografici di Anna, ma le traduzioni di ottantasette poesie francesi, spagnole e portoghesi mai giunte alla pubblicazione, come pure tre montagne di manoscritti a penna, matita e dattiloscritti di quasi tutte le poesie di Anna, manoscritti di versioni alternative, quasi tutte su fogli A4 ma anche su fogli sparsi strappati da album da disegno, da quaderni a fogli bianchi, da quaderni a righe di varie dimensioni, sia quaderni americani e inglesi a righe orizzontali sia cahiers e cuadernos a quadretti da Francia e Spagna, insieme a poesie o pezzi di poesie scarabocchiate sul retro di buste, bollette della luce, liste della spesa, la fattura di un muratore, e sul rovescio di un vibrante, sentitissimo biglietto di ringraziamento da parte dell’editor che aveva pubblicato la sua traduzione di Poeta a New York di Lorca. E poi: manoscritti di decine di recensioni editoriali, copie delle riviste settimanali e mensili su cui uscivano, cinque racconti inediti, e le duecentotrentasei pagine dei due romanzi abbandonati da Anna…
E poi questa, da stamparsi in fronte:
Esiste forse uno scrittore o un artista che non vive in quel territorio instabile tra fiducia e disprezzo di sé?
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