Nel cuore del buio: anatomia della fine secondo Enrico Macioci

Not my hand*

La vita è un’isola circondata dal buio, da un grande buio, e nel buio accadono fatti al di là della nostra comprensione.

Amiche e amici, come state? Io bene, anche se dopo l’ultima notte passata (nel senso) con Enrico Macioci non riesco a scrollarmi di dosso una certa vertigine. Il grande buio (Neo Edizioni, 2025) è un romanzo (o una sequenza di racconti?) che comincia come un’apocalisse e finisce come una confessione. È un viaggio in cui la violenza non è mai semplice spettacolo, ma una lente che deforma e rivela.

La prosa è tagliente, cinematografica. Le immagini non si limitano a descrivere (ATTENZIONE IMMAGINI FORTI!): “la bimba con il cranio aperto brulicante di zanzare”, “i quarantatré morsi che divorano Lara”, “la vestaglia che odora di rancido e desiderio”. Macioci sa dosare crudeltà e lirismo: accanto all’orrore trovi l’eco di Rimbaud, il soffio poetico che spalanca le “brecce operadiche” del mondo.

Macioci costruisce un mondo che sembra dissolversi davanti agli occhi, pagina dopo pagina. L’incipit – un condominio trasformato in teatro di un massacro totale, con i cadaveri che galleggiano nella piscina “come il grottesco pallone di una civiltà estinta” – non è solo una scena shock: è la dichiarazione d’intenti di un autore che non vuole più mediazioni. Non c’è ironia, non c’è allegoria, non c’è speranza. C’è solo la constatazione che il collasso è già avvenuto, e che non ci resta che assistervi. Donne, uomini, bambini, un giardiniere con la gola tagliata, i vestiti sparsi, le ciabatte allineate sull’erba come in un rito collettivo di follia. Un’apertura che sembra dire: il mondo è finito, e noi non ce ne siamo accorti. Eppure Macioci non scrive un romanzo di fantascienza: scrive un romanzo sulla specie umana al tramonto di sé stessa. Un’umanità che non implode per colpa di un virus, né per una guerra, ma per un lento, irresistibile logoramento morale.

Il grande buio, però, non è un esercizio di stile apocalittico. È un mosaico narrativo che intreccia più piani: la fine del mondo e quella dell’anima, la cronaca nera e il mito, l’indagine poliziesca e la discesa negli inferi dell’inconscio. Ogni racconto, ogni episodio – dal poeta Rocco Neve con il suo fascino maligno e la stanza proibita, al caso di Lara Montefoschi sbranata da morsi umani, fino al monologo della cassiera ossessionata dalla propria bambina – è una tessera che riflette una stessa ossessione: la corruzione dell’umano, la perdita del confine tra bene e male, amore e violenza, eros e morte.

Lo stile di Macioci, che ritorna su temi cari come l’oscurità dell’anima (v. il precedente Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia) o l’angoscia per l’ignoto (Tommaso e l’algebra del destino), è un animale a parte. La sua lingua non descrive: decompone. È sensuale e feroce, densa di immagini che si imprimono sulla retina. “I seni della donna pendevano da uno squarcio largo e frastagliato”, “un drappo nero di mosche si alzò dal suo grembo”: frasi che non cercano il disgusto, ma lo stupore, l’antico terrore sacro della vita e della carne. L’autore alterna registri lirici e cronachistici, visioni rimbaudiane (per l’esplorazione dell’inconscio e la ricerca di una visione del mondo profetica) e linguaggio da verbale di polizia, in un continuo attrito che genera tensione. È come se Ballard, McCarthy e D’Arrigo si fossero dati appuntamento in un’Italia post-umana e suburbana, dove ogni gesto quotidiano – una riunione di condominio, una doccia, una chiacchierata al bar – diventa preludio di catastrofe.

In questa struttura frammentaria ma coerente, Il grande buio assume la forma di una teologia negativa dell’umanità: un vangelo dell’estinzione. Come in certe opere di Céline o Houellebecq, l’orrore non è mai puro compiacimento, ma radiografia di un mondo che ha smesso di credere nel futuro. Persino la morte, qui, non è liberazione: è routine. Le scene di sangue, per quanto estreme, sono sempre lucidissime. L’autore non si rifugia nell’eccesso per stupire, ma per dire che non c’è più nulla da stupire.

Nel Grande buio i personaggi sono specchi incrinati della stessa umanità in rovina: il Rocco Neve di prima, poeta bellissimo e spietato, incarna il fascino del male travestito da arte, un vampiro emotivo che trasforma tutto ciò che tocca in corruzione; Paolo e Lisa sono l’innocenza illusa, coppia di sopravvissuti alla miseria e alla curiosità, vittime perfette della seduzione e dell’orrore; la già citata Lara Montefoschi è la purezza sacrificata, divorata da un desiderio collettivo che ha perso il volto umano; l’ispettore Gobbi rappresenta la razionalità impotente davanti all’abisso e Concetta Marrani, madre mostruosa e oscena, la personificazione della colpa che partorisce il male. Tutti – poeti, amanti, assassini, vittime – condividono la stessa condanna: essere vivi dentro il buio.

Eppure, dentro questa tenebra totale, Macioci riesce a far filtrare qualcosa che somiglia a una pietà laica, una compassione spenta ma ostinata. È nei dettagli – un gesto, una frase, un riflesso – che si percepisce ancora l’eco di ciò che fummo. Come se la letteratura, anche quando scava nel marcio, restasse l’ultimo modo per ricordare che un cuore, da qualche parte, ha pur battuto.

A supporto di una narrazione cupa, estranea ma così gelidamente vicina, Enrico Macioci costruisce dialoghi che pulsano di inquietudine e intelligenza, capaci di farsi rivelazione psicologica e riflessione filosofica senza mai perdere credibilità. Il parlato dei personaggi, sebbene denso e intellettualmente carico, non suona mai artificiale: è una lingua viva, fatta di esitazioni, di domande più che di risposte, di ritmo interiore. Nei dialoghi tra l’ispettore Gobbi e il vice Rauchi, ad esempio, la parola diventa indagine non tanto sul caso di scomparsa che li impegna, quanto sulla natura stessa del male e dell’assurdo. Macioci sa usare la voce dei suoi personaggi come strumento di vertigine: il lettore, come loro, finisce per affacciarsi sull’orlo del “grande buio”.

Due esempi emblematici (in fondo al post, altri estratti per voi, non ringraziatemi):

«Ti sembra credibile che un uomo qualunque, un giorno qualunque, mentre si reca in un paese qualunque a presentare il proprio libro, vada al cesso di un bar qualunque e poi s’inerpichi su per una qualunque montagna senza fare ritorno? […] Preferisci alle piccole tracce del grande buio il grande buio e basta? Il grande buio negli occhi, nella mente e nel cuore, il grande buio che ti affoga in un gorgo di tenebra e malvagità e… e vacuità?»

E ancora, in uno dei dialoghi più tesi del libro, dove la paura si fa logica e la logica allucinazione:

«Il grande buio c’è sempre, ma noi non ce ne accorgiamo. […] La luce nella quale ci muoviamo è una minuscola zattera sopra lo smisurato oceano di grande buio.»

Una visione cosmica e quasi metafisica dell’oscurità: il male, l’ignoto, la follia come elementi costanti che solo l’illusione della luce riesce a tenere a distanza. In passaggi come questi, il dialogo si fa rivelazione poetica: più che avanzare la trama, illumina – per contrasto – l’abisso che circonda i personaggi e, con loro, il lettore.

In un’epoca in cui molta narrativa italiana si rifugia nel quotidiano, Macioci scrive come se non ci fosse un domani. E forse è proprio questo il punto: non c’è. Non per i suoi personaggi, non per la letteratura, forse nemmeno per noi. Ma nel dirlo, nel mostrarlo, compie un gesto radicale e paradossalmente vitale: restituisce alla parola letteraria la sua capacità di ferire, di inquietare, di dire la verità. Una verità scomoda, carnale, blasfema: che il buio non è qualcosa che arriva da fuori. È ciò che da sempre portiamo dentro.

Neo Edizioni conferma il coraggio editoriale: pubblicare un libro così significa scommettere su un lettore disposto a sporcarsi. Se cercate un thriller da risolvere, cambiate scaffale. Se volete un romanzo che vi divori e vi lasci l’eco del vostro stesso respiro, questo è il libro.

E allora sì, forse aveva ragione il poeta Rocco Neve: “nessuno è mai felice e tutti fingono di esserlo”.
Perché la felicità, in fondo, è solo l’ultimo modo che ci resta per non ammettere che il grande buio è già qui.

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi


BONUS TRACKS: alcune citazioni che ho sottolineato con la chiave (ho letto l’ebook, capitemi):

«Il male è una mancanza, una sottrazione… Il male si trova nel grande buio e il grande buio non è banale. Banale è ciò che non ha mistero.»


Un ribaltamento potente del concetto di “banalità del male”: qui il male è profondità, abisso, vertigine – non l’assenza di pensiero, ma il suo eccesso.


«Le nostre vite sono modelli di vetro soffiato in bilico sull’abisso. Noi ci affanniamo a tessere reti di protezione, e le reti si compongono di nodi perlopiù minuscoli, insignificanti…»

Una delle più belle metafore del romanzo: la fragilità umana come opera artigianale sospesa sull’orlo del nulla.


«Tutto è tristezza senza fine perché tutto sta finendo.»

Una frase lapidaria che incarna la visione apocalittica e malinconica del libro: la percezione della fine come condizione permanente del reale.


«Solo vestendo il saio dell’umiltà possiamo risparmiarci di fissare il grande buio in tutta la sua cattiveria, perché il grande buio ragiona e forse apprezza l’umiltà.»

Una chiusura che ha quasi il tono di una parabola mistica: la resa alla complessità del mondo come unica forma possibile di salvezza.


«Il dubbio ci manda avanti. È il dubbio il centro della vita, le sicurezze si limitano a demarcarne il bordo.»


Una delle frasi che riassume l’intera poetica di Macioci: la vita come incertezza costitutiva, il buio come condizione naturale dell’esistere. Aggiungo, guai a chi gira sempre con la verità in tasca: può sbagliare, SBAGLIA con la presunzione (stupida o arrogante) di aver ragione e di stare nel giusto.


E in conclusione, questi postulati che avresti potuto esprimere tu se conoscessi la sincerità. Con la violenza, la mancanza di empatia, il disprezzo per gli altri, la cattiveria e il cinismo che ti porti dentro. Quando cerchi di affossare il prossimo accusandolo e offendendolo, ma vivi di bugie, mentendo agli altri e anche a te. In (quasi) ogni cosa che dici, in (quasi) ogni cosa che condividi.

La verità non esiste / La verità la costruiamo noi / La verità è una menzogna

Ciao.

*La mano non è mia (ma d’altronde il web ormai è tutta una farsa, con la condivisione di immagini di posti dove non si è e non si è stati, con persone che non sanno nemmeno di essere state messe in mezzo – come il titolare di questa mano)


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