Uomini o topi

Eppure, “ogni uomo uccide ciò che ama

Amiche e amici, come state? Io non mi sono ancora ripreso: ero qui con la gattina in braccio quando, chiedendole di alzarmi un attimo per inderogabili esigenze fisiologiche, anziché vicinanza e comprensione, incomprensibilmente si è messa a strillare, mi ha graffiato, mi ha augurato le peggio cose per poi tornare in giardino alla sua solita vita mondana. «Mo so’ cazzi tua», mi ha detto prima di dare fuoco alla casa e uscire.

A proposito di reazioni imprevedibili, di gatti e di crudeltà senza giustificazione, questo atteggiamento mi ha ricordato quello di Lennie, uno dei protagonisti di Uomini e topi di John Steinbeck, un omone “semplice” incapace di rendersi conto delle conseguenze mostruose delle sue azioni. Conseguenze che ne segneranno la vita, la sua e quella delle persone a lui vicine.

Uomini e topi è un racconto lungo (o romanzo breve, qui pubblicato da Bompiani nella traduzione di Michele Mari dopo quella censurata e storica di Cesare Pavese) incentrato su due braccianti nell’era della Grande Depressione Americana: il sopracitato Lennie, e George, suo amico e tutore, piccolo e sveglio. I due hanno un sogno: possedere un giorno la loro piccola fattoria, essere autosufficienti e avere animali carini e coccolosi da accarezzare. Tuttavia, George e Lennie sono appena stati cacciati per sempre dalla città, e proprio per una reazione fuori misura e imperdonabile di Lennie.

Uomini e topi è un racconto molto oscuro, buio. Steinbeck è un maestro nell’impostare la scena, e le descrizioni riescono a rendere tutto ancora più inquietante.

Uno dei temi più evidenti nella storia, oltre all’amicizia maschia, è l’illusione del “sogno americano” che… non esiste: c’è solo la dura e fredda realtà. Non esiste e non ci sarà nessuna fattoria. È evocativo della solitudine nell’animo umano e di come desidereremo sempre l’impossibile. La vita non funziona proprio così, le persone non sempre ottengono ciò che vogliono. Il mondo è un posto crudele e spietato, Lennie ne è metafora: è vulnerabile ed emotivamente debole, completamente inconsapevole della forza feroce che possiede. In più, non capisce mai veramente cosa accade, e il mondo che vede è diverso da quello di tutti gli altri.

Altro tema è il senso del destino e la solitudine. Quest’ultima, la cifra più significativa, secondo me. “Ogni uomo uccide ciò che ama…“, mi tornava in mente questo verso di Oscar Wilde da La ballata dal carcere di Reading, e non solo per la sua verità letterale nel contesto di Lennie e George, ma anche perché evoca il brutale isolamento di tutti i personaggi di questa storia, ognuno bloccato nella propria realtà separata, incapace di connettersi l’un l’altro: la giovane moglie sola che non ha nessuno con cui confidarsi e continua a cercare guai per puro isolamento; il suo uomo, figlio del proprietario del ranch, in una terra di nessuno tra privilegi e male gratuito; l’uomo “nero”, così completamente solo e isolato da essere quasi pazzo; la solitudine di George dovuta alla sua responsabilità nei confronti di Lennie, e Lennie stesso, nella brutale prigione della sua inferiorità intellettuale e della sua forza titanica.

L’effetto domino dell’incapacità di Lennie di controllare la sua forza o la sua brama di dolcezza e amore fa sì che tutti i sognatori si ritrovino in un incubo senza fine a cui solo la clemenza di chi davvero gli ha dimostrato vicinanza e vero amore potrà dare pace e ristoro.

Prosa mozzafiato, personaggi toccanti e un finale straziante. Quello che ci si aspetta da un grande classico, al di là del numero delle pagine. L’unico conforto in questa storia è trovare un altro essere umano che comprenda abbastanza il dolore di uccidere ciò che si ama, offrendo un segno di sostegno e amicizia nella miseria della realtà.

(P.S. LA GATTA e i difetti di comunicazione: indeciso se dirle “Bye” o “Miao”, le ho detto “Bao”. Com’è finita con lei? In un prossimo post)

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi

Ah, vi hanno mai dato del “malato di mente”? A me sì.


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