La verità che muore otto volte — Callista Wood e il prezzo del silenzio

“Non è la morte che spaventa. È l’idea che nessuno ascolterà la storia che avevi da raccontare.”

Amiche e amici, come state? Io bene, ero qui a leggere di promesse fatte in tempi lucidi quali: “Ci sarò per sempre” e “qualsiasi cosa accada” e pensavo: quanto credito dare alla parola data? Che fine fanno le persone quando scompaiono? E chi ti ha ucciso una volta, può farlo ancora? E mi è tornata in mente Callista Wood, sì: uccisa otto volte.

Certe storie non iniziano, si risvegliano. Come quelle voci che affiorano nel silenzio, quando ormai pensavi che fosse finita. Callista Wood è una di quelle voci. Non grida, non si impone, ma è impossibile ignorarla. Perché anche da morta – anzi, proprio da lì – inizia la sua verità.

Pubblicato da NEO, il romanzo di Manuela Montanaro non si legge come una semplice trama, e non va affrontato come un giallo nel senso classico. È piuttosto un’inchiesta dell’anima, un polifonico scavo archeologico nel cuore di una comunità, quella di Keystone, piccolo paese tra le Black Hills del South Dakota. Un luogo immobile, attraversato da colpe sedimentate, in cui la scomparsa di una donna afroamericana molti anni prima, apre la scena a un altro delitto irrisolto, quello della nativa Callista Wood, squarciando il tessuto del non detto.

Otto persone dichiarano di averla uccisa. Nessuno mente del tutto. Nessuno dice la verità.

Ogni personaggio porta il proprio frammento di verità: è un mosaico instabile. Non esiste un unico colpevole, ma una trama di responsabilità diffuse.

Che cosa è successo veramente?

A ricomporre i frammenti è Amanda, giovane psicologa, figlia ritornata a casa dopo una lunga assenza, sopravvissuta alla morte di sua sorella gemella, Love, durante il parto. Ma Love non è del tutto sparita: la sua voce resta. Le parla. Le suggerisce. Come un’eco interna, o forse come una coscienza più acuta. Amanda è la custode di un silenzio rotto, e attraverso il suo sguardo – insieme lucido e ferito – entriamo in contatto con i testimoni, uno dopo l’altro.

E qui Montanaro mostra la sua forza narrativa: ogni voce è un tassello, una piccola fessura da cui filtrano pezzi di Callista, e più ascoltiamo, più comprendiamo che questa donna non è mai stata davvero viva per chi l’ha incontrata. Era desiderio, paura, alterità. Era “l’altra”. Quella che, pur senza far nulla, turbava gli equilibri. Quella che, per esistere, doveva essere cancellata.

La comunità del South Dakota diventa specchio di conflitti razziali, generazionali e individuali. E l’Italia che scrive l’America? Prima dell’ennesimo effetto sorprendente, questo testimonia una padronanza: Montanaro padroneggia tempo e luogo al punto da far dubitare che non sia nata davvero lì.

La narrazione non segue un ordine cronologico, e nemmeno emotivo. Va a strattoni, a lampi. Come la memoria, come i traumi che non si lasciano incasellare. Eppure ogni parola è calibrata, ogni salto temporale ha un peso. La scrittura è asciutta, essenziale, ma densa di atmosfera. Keystone diventa un personaggio a sé: boschi che inghiottono, case che sussurrano, silenzi che urlano.

“Non è la morte che spaventa. È l’idea che nessuno ascolterà la storia che avevi da raccontare.”

È attorno a questo concetto – tra i più potenti del libro – che si muove l’intero romanzo. Perché ciò che conta non è solo sapere chi ha ucciso Callista, ma chi le ha impedito di esistere davvero. E allora ogni morte (otto, come dice il titolo) diventa un tentativo di cancellazione. Ma anche una forma di sopravvivenza: perché in ciascuna di esse c’è un frammento della sua voce, della sua identità.

I personaggi che raccontano Callista sono spesso più rivelatori di sé stessi che di lei. E così, in controluce, vediamo una società chiusa, ancora attraversata da tensioni razziali, sessuali, culturali. Ma mai rappresentate in modo didascalico. Montanaro non spiega, non giudica: mostra. E nel mostrarci lascia spazio a quel senso di inquietudine sottile che cresce, pagina dopo pagina, come una pressione sotto la pelle.

E poi c’è Amanda, con la sua voce fragile ma necessaria. Non è un’eroina. È un ponte. Tra i vivi e i morti, tra il rimosso e la memoria. La sua presenza spezzata – sorella viva di una gemella che non ha mai vissuto – si fa simbolo stesso del romanzo: una storia a metà, un’identità sempre in costruzione.

Anche per questo, leggere L’incredibile storia di Callista Wood che morì otto volte significa accettare di non avere risposte nette. Significa lasciarsi avvolgere dal dubbio, e trovare nella parola – quella scritta, quella detta, quella taciuta – l’unico appiglio possibile. E alla fine, come Amanda, anche noi restiamo lì: con la sensazione che qualcosa ci sia stato rivelato ma che, per comprenderlo davvero, serva tempo, serve silenzio, serve ascolto.

Questo libro parla di come le leggende nascano negli spazi non detti, di come la memoria diventi colpa. E lo fa con uno stile sismico, che scuote ma non aggredisce. La struttura a testimonianze spezzate ricorda polaroid: immagini crude e mai definitive, tutte affidate a una penna italiana capace di immedesimarsi in un’America poco raccontata.

È un romanzo che non chiude, ma apre. Non consola, ma inquieta. Ed è proprio per questo che rimane. Perché certe storie non chiedono di essere capite, solo di essere ascoltate. Un grido che è poco più di un sussurro: “chi ti ha ucciso una volta, lo rifarà?”.

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi


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