Carnem levare: siamo in evoluzione, facciamocene una ragione.

Quando ero piccolo, giocando davanti a casa della nonna, mandavo spesso per sbaglio apposta il pallone dall’altra parte della strada. La nonna abitava di fronte a un distributore della Chevron, e non c’era cosa più divina che respirare il vapore iridato della benzina rossa. Poi siccome non c’era il bancomat, il signore, che si chiamava Centonze, teneva le tasche gonfie gonfie, con i rotoli di banconote: le mille, le duemila, le cinquemila lire da una parte, dalle dieci in su nell’altra.

E ovvio che, in queste condizioni, la risposta a «Che lavoro vuoi fare da grande?» era assolutamente scontata: «Il benzinaio!». Pure Luca Carboni diceva lo stesso, in una canzone.

Non si sapeva mica che la benzina non si potesse respirare. O meglio, qualcuno lo sapeva: ci tolsero il piombo (che era tossico) e introdussero il benzene (che è cancerogeno).

Comunque, sia come sia, da quel giorno ricordo che in famiglia si accennò vagamente al fatto che la benzina facesse male e nessuno fu autorizzato più ad attraversare la strada per quelle belle sniffate di gloria.

Io faccio difficoltà a spiegare a mia figlia che cosa rappresentasse per me respirare la benzina, o la colla, o restare in una piccola stanza dove giocavano a carte fumando senza sosta dai quattro agli otto adulti.

L’OMS ha messo würstel, bacon e carni lavorate, nella stessa black list dei prodotti cancerogeni come alcool, arsenico, amianto e, appunto, benzene.

Non è che non si sapesse: si sapeva. Come si sapeva per le sigarette, come si sapeva per la benzina.

Per non essere un medico, posso credere che i tumori sono, di massima, dei tentativi che l’organismo fa per trasformarsi (per assurdo per evolversi) e riuscire ad adattarsi a condizioni fisiche e ambientali nuove. La carne, che non è mai stato per l’uomo moderno un alimento perfettamente adatto, gli procura una reazione adattativa. Una volta ogni tanto, poi, gli fa poco o niente (e dipende sempre dalla persona) ma se sottoponi l’organismo alla stessa esposizione ripetutamente nel tempo, quello risponderà con una modifica per cercare di adattarsi alle nuove condizioni.

Signori, il ragionamento è elementare più della scuola di mia figlia e più palese dell’aeroporto di Bari: il nostro organismo riconosce la carne come alimento solo da quando l’uomo ha cominciato a cacciare, nel paleolitico, circa due/trecentomila anni fa, e non aveva certo la macelleria o la salumeria sotto casa, quindi mangiavo poco e quando capitava. Per i milioni e milioni di anni precedenti il sistema digerente ha conosciuto solo e soltanto semi, frutti, tuberi, funghi, radici, erbe, evolvendosi e specializzandosi in quella direzione. E solo in epoca moderna, con gli allevamenti intensivi, la deforestazione per lasciare spazio a grandi pascoli, si è arrivati al consumo attuale di carne.

Che poi l’uomo turbo-consumatore/produttore ha pensato di vendere sempre di più a costi sempre inferiori, e stoccare carni e salumi e conservarli il più a lungo al minor costo possibile, aiutato dalla chimica e i suoi nitrati e nitriti potenzialmente cancerogeni (la nonna dice che usava il sale e basta, può essere?), quindi moltiplicando oltremodo le probabilità di esporre i consumatori a rischi gravi.

Almeno a sensazione, per quanto viene fuori dalla chat delle mamme su WhatsApp (che hanno sostituito le chiacchiere da bar), questa “rivelazione” sta generando una rivoluzione culturale nei consumi alimentari. Mi pare di avvertire che, se da una parte c’è una specie di frenesia da consumo pre-attacco nucleare/meteoritico (tipo me quando scopro di avere delle intere scorte di Fettallatte scaduti da una settimana), dall’altra c’è più consapevolezza.

Io non so come spiegare a mia figlia come e perché si sniffava la benzina, lei non saprà spiegare alla sua il come e il perché dei würstel sulla pizza o negli hot dog. In entrambi i casi, siamo il frutto di un ennesimo pezzettino di evoluzione.

“Siamo quello che mangiamo”.

In quest’ottica io sono il Fettallatte scaduto. Ancora buono.

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Michele Lamacchia

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