Spara sì, ma non mi colpisce

“Siamo già stati dove non siamo mai stati, e anzi, a dirla tutta, veniamo da lì”

Amiche e amici, come state? Ero al battesimo del figlio di uno di Fratelli d’Italia quando, nel mezzo dell’applauso per il sacramento, si sono sentite delle pistolettate, gente buttata a terra tra i banchi della chiesa, poi qualcuno ha urlato: «Ahò, stamo a scherza’!», e tutti a ridere, anche il chierichetto colpito alla mano.

«COSA CAZZO?!»

«’A bello ma ringrazia a Dio ci hai le stimmate ANVEDI QUESTO CI HA LE STIMMATE AHÓ!»

Grida, risate, applausi.

E in tempi di pistoleri, come non parlare del nuovo, ultimo e atteso romanzo di Alessandro Baricco? Assente dalle scene da otto anni, il nostro amato Preside della Scuola Holden (che adoro e che saluto) ci offre il suo Abel, un western metafisico, la storia di un talentuoso pistolero e del suo percorso di formazione (in avanti nella linea della vita e anche indietro).

Da lettore di Baricco che lo ha amato sempre in tutti gli anni’90, quando sfornava libriccini piccoli e segnanti, ho attraversato le 146 pagine di questa storia quando a metà di essa ero in bilico tra due giudizi: “è un libro del cazzo, o è un cazzo di libro?”.

Alla fine, sono rimasto di quella opinione mediana: un librazzo. Che a dispetto di quanto pompato dall’editore (Feltrinelli) con una campagna da paura, vetrine di Abel, giornali di Abel, banner di Abel, mi sono trovato Abel pure nella lavastoviglie, nel trasportino delle gatte, almeno PER ME non sarà un libro indimenticabile. Quando a un certo punto si dispiega, cominci a entrarci ma è troppo tardi, sta finendo, è finito. La storia è un western, ha i paradigmi del genere (pistole, sceriffi, saloon, praterie, cavalli…) e allora dove sta la differenza, la novità, il perché?

Il perché è Baricco che è bravo. Bravissimo. Però. Se negli anni ’90 mi sarei bevuto qualsiasi cosa mi colasse (verbo abusato in Abel), col tempo sono diventato sempre più astemio. L’impressione che ho avuto io è che, per quanto riguarda la scrittura, a parte la usuale, lunga sequenza di frasi da Smemoranda, sembra percepire la voglia dell’autore di farci sapere quanto è bravo, bravissimo con le parole. A mio parere, oltre a rendere la lettura in certi tratti poco scorrevole, poco chiara proprio, non rende giustizia all’onestà del rapporto tra autore e lettore, più volte appoggiato sulla pagina quasi fosse puro (e solo) esercizio di stile.

“Così lontani da tutto che noi eravamo tutto, e il nostro nulla l’unica notizia”

“Abbiamo continuato a camminare, a schiumare cavalli scaricando pensiero, fino a che in cima a quell’andare ci aspettava l’oceano, così strozzando la nostra sete di terra, per sempre”

Non aiuta anche la non-successione-cronologica dei capitoli che, mescolati, sembrano voler richiamare i meglio noir alla Christopher Nolan ma su carta è tutto più complicato, signora mia. Il colpo di grazia, poi, l’inserimento di richiami alla filosofia, alla religione che appaiono posticci, pretestuosi: uagliò, che in mezzo al deserto stai! Uno dei punti più alti del racconto, il capitolo su Magdalena che richiama una fantomatica località che potrebbe essere una delle città invisibili di Calvino. Credo sette pagine.

Ma mi è piaciuto, si finisce in un paio di giorni, i personaggi sono anche molto belli che dici ci verrebbe un film degno (discorso a parte per le donne, inquadrate in un ventaglio di cliché che le vede puttane anonime, impalpabili creature evanescenti o pistolere lesbiche con le palle, ma siamo nel West, hee haw cowboy!). Ci sono dei momenti intriganti, davvero. Di metafisico c’è tutto quello che il libro non dice e che, da quei momenti, ti aspetti. Peccato poi che non hai il tempo di empatizzare coi personaggi, il libro finisce. Aspetteremo il film.

Ora scusate, vado a fare lo STUB: quello che ha portato la pistola al battesimo ha dato la colpa a tutti. A dopo! PEM PEM PEM PEM PEM!

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi

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