Se viene femmina la uccido

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Fatto vero. Avevo forse vent’anni e un mio collega di studi, all’epoca dei fatti uno dei miei migliori amici, mentre eravamo in aula mi prese il braccio e me lo strinse forte. Andiamo fuori per piacere. Certo. Capisco che era successa una cosa anzi: stava succedendo, perché c’era un’urgenza ma non un’emergenza.

«Alessandra è incinta», mi disse. Cosa che mi stranì. Intanto perché io lo conoscevo come uno che faceva il coglione con tutte e, ragionevolmente, non avrebbe rischiato di legarsi con una a lungo (e un figlio lo fa).

«Che pensate di fare?», chiesi mentre in macchina stavamo correndo da lei, che viveva con la sua famiglia su una collina appena fuori Roma, in una villetta bellissima con vetrate su un prato curatissimo.

«Lo teniamo, ovvio!». A me non sembrava tanto scontato perché hai vent’anni quasi, non hai un lavoro, non hai una casa, non sai nemmeno badare a te stesso. Il padre di lui e il padre di lei, seppi quella mattina, erano entrambi ufficiali superiori delle Forze Armate (quello di lei generale) quindi, immaginai, non avrebbero avuto problemi a camparli. Lei, Alessandra, era radiosa, saltava a piedi nudi nel prato davanti casa, abbracciava il mio amico e lo baciava. Li vidi emozionati e mi rilassai. Quando tornammo indietro, nel silenzio cupo dei trasferimenti in macchina, gli chiesi come si sentisse. Mi disse che doveva chiaramente elaborare la cosa, che probabilmente avrebbe lasciato gli studi (cosa che fece) e che non gli sarebbe dispiaciuto diventare padre. Ma aggiunse una cosa.

«Se viene femmina la uccido».

Rimasi gelato perché il mio amico, la persona con cui studiavo, con cui andavo a fare la spesa, con cui andavo al pub o al cinema, con cui andavo a Piazza di Spagna a (cercare di) conoscere le ragazze, con cui ridevo e scherzavo disse una cosa crudele, cinica e immotivata. Se viene femmina la uccido. Ma perché?

«Cioè? Che vuol dire?» chiesi, aspettandomi una risposta scherzosa o che.

«Eh! Ma ci pensi che quella un giorno torna a casa dopo che è uscita, viene, ti sorride, ti mette le braccia al collo, ti bacia e va in camera sua e dieci minuti prima era in macchina con uno a fargli un pompino?».

Giuro, fece questo ragionamento e lo fece serio, lucido. Non era una battuta. Non parlammo più per tutto il tempo fino a casa e, appena lasciò l’università, non parlammo mai più per sempre: la persona con cui condividevo tutto in quel periodo della mia vita, inclusa la camera in cui dormivo, in qualche modo, era una specie di mostro. Non che avessi mai pensato che potesse realmente ammazzare una figlia o alcuna persona, però il fatto di essere riuscito a elaborare un’idea così malsana, così intrisa di questioni pruriginose, mi creò del disagio. Un disagio denso, sporco, il primo di una serie che, se messi in fila uno con l’altro, ci dicono che più indizi fanno una prova e che, quindi, abbiamo il mostro in casa, magari sopito, ma è lì: vive tra noi.

Dovremmo interrogarci, fare una personale analisi di coscienza o farcela fare da qualcuno perché, io credo, non è normale avere pensieri del genere su una bambina, su una ragazzina, su una donna. Ma la cosa inquietante è che a elaborare certi pensieri sono persone normali, quelli che abitano con noi, tra noi, quelli che “era tanto una brava persona/salutava sempre”.

E non che io abbia solo amici pervertiti ma da quel giorno su quella collina di Roma certe frasi mi frizzano come le sigarette spente nelle orecchie e le notai di più. Provate a farlo anche voi. Io comunque, da quel giorno in cui chiesi al mio amico di Roma il motivo del suo voler uccidere la figlia (e dopo lo sconcerto per la sua risposta), non chiesi più niente a nessuno. Non volli sapere.

La mia speranza era (e si è poi concretizzata) di poter aver due figlie femmine. Sì, i figli sono belli tutti, ma ognuno ha le sue preferenze: io volevo due femmine e lo raccontavo senza malizia. Si fanno i corsi pre-parto, ci si confronta tra futuri papà. Al che uno: «Mai sia! Appena so che è femmina la faccio abortire sicuro!» perché le femmine danno solo problemi, tipo rimangono gravide. Serio, lucido. Non gli chiesi niente, non volli sapere.

Poi sono diventato papà. Da genitore viene naturale confrontarsi con gli altri genitori su tutto: pappa, trasporto, vestiario, malattie, etc. E un altro, parlando di cose tecniche tra padri di neonate: «No, io mia figlia non la cambio, non la lavo, non la tocco proprio», ma parliamo di cose pratiche, di pannolini, di gestire un piccolo esserino… «Ma scherzi! Mai e poi mai! Sempre una femmina è, e io un maschio!».

Un altro che faceva il bagno con sua figlia di pochi mesi: «Io e mia figlia facciamo il bagno insieme. In costume da bagno». Anche io e mia figlia facciamo il bagno insieme, ma nudi. Dopotutto non sa nemmeno come si chiama. «Ho capito, ma metti che si impressiona o altro?». Sempre una femmina è, e io un maschio.

E man mano che le figlie crescono, cambia l’età ma i ragionamenti sono sempre analoghi: «Quando sarà (che raggiungerà l’età per uscire), la chiuderò in casa», «Chi ci ha i figli maschi non ha pensieri», Se mi porta qualcuno (un fidanzato, s’intende) lo prendo a calci nel culo», «Se la vedo con uno, vado e lo ammazzo di pugni» e roba simile. E poi: «Ma tu non sei geloso di tua figlia?», e mi vedono come un diverso, per il fatto che no, non sono geloso di mia figlia, che la vita è la sua, che lei deve fare le sue esperienze (belle e brutte che siano) a prescindere da me.

Io ci sento un disturbante rumore di fondo, pronto a essere manifestato.

Ci indigniamo per un indubbio rapporto malato che una buona parte di uomini ha con l’altro sesso, ma provate a chiedere al vostro uomo, sinceramente:

«Che problema hai? Perché pensi che sia meglio avere un figlio maschio che una femmina? Perché sei geloso di tua figlia?»

Non tutti gli uomini sono così, fortunatamente, però i dati sono troppo significativi e includono una grossa fetta di popolazione, troppo importante da poter essere sottovalutata o ignorata.

L’Istat dice che in Italia 6,7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni sono state vittima di violenza. Più di una su tre, praticamente. immaginate di parlare con tre amiche e che una di queste è stata aggredita almeno una volta. E parliamo, ovviamente, solo dei casi denunciati. Di queste, più di unmilionequattrocentomila sono state stuprate o vittime di tentata violenza sessuale (sempre riferendoci ai soli casi noti perché, come sapete, tantissime non denunciano nulla perché ritengono fisiologico un certo tipo di comportamento e, quindi, comprensibile, accettabile).

Ci indigniamo se sentiamo dire che le donne non devono vestirsi come vogliono o non devono andare in giro da sole perché altrimenti provocano istinti ancestrali dell’uomo. Ma chi sono questi uomini? Sono gli stessi vostri uomini. Quelli che odiano le donne. Che non accettano che queste abbiano (in ogni campo) un ruolo che non sia sottomesso al proprio. Che hanno paura di avere una figlia femmina o, se ce l’hanno, hanno paura di toccarla o che rimanga sconvolta nel vedere un uomo nudo, che provano odio immaginando che questa (che è di proprietà) possa avere una vita propria, anche sessuale.

L’amico che abita con noi, il nostro vicino di casa, il nostro marito o fidanzato, guardatelo bene: questa è gente che, nel cerchio della confidenza, nell’intimo dei propri pensieri, riesce a partorire delle cose molto sporche, malate che, a me che osservo dall’esterno, mi sembrano solo il risultato di qualcosa cucinato nel ribollore del sottopancia.

E questa è gente che vive con noi e con le nostre figlie. E che salutava sempre.

 

Michele Lamacchia

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