
Una notte di diversi anni fa venni svegliato dal pianto straziante di mia sorella. Io facevo le superiori e lei, più piccola di me, probabilmente era stata a sua volta disturbata da un brutto sogno. Sperando di consolarla e per poter così tornare a dormire, mi alzai e andai ad abbracciarla ma lei mi respinse urlando come una pazza e solo allora mi resi conto che la situazione era più complicata di quanto avessi immaginato. Lei non era stata svegliata da un sogno ma da un vero incubo: il palazzo in cui vivevamo era in fiamme.
Realizzai che, oltre le urla di mia sorella, altri pianti, colpi e invocazioni rimbalzavano tra le pareti di casa dove i miei fratelli, mia madre e mio padre erano in preda al panico. Non capivamo né sapevamo che cosa fare. Per strada, oltre le finestre, tra i lampi delle fiamme alte, vedevamo la gente del quartiere scesa in strada per curiosare, tutti che si portavano le mani alla bocca o nei capelli. Le fiamme schizzavano fuori dal portone e saettavano all’interno della tromba delle scale. La porta d’ingresso dell’appartamento scottava. Qualcuno capì che a prendere fuoco doveva essere stato il quadro elettrico nell’androne dell’edificio, perché è da lì che si propagava tutto, il fuoco e un fumo nero e denso.
Eravamo chiaramente senza luce e a casa, dove vivevamo in questo quartiere popolare di Bari, non avevamo il telefono. I cellulari, a loro volta, erano ancora un’idea lontana.
“Chiamate i pompieri! Chiamate i pompieri!” gridavamo dalle finestre.
Qualcuno dai balconi ai piani superiori urlava disperato: “Aiutateci! Aiutateci!”
Ma mentre le fiamme si mangiavano quello che trovavano davanti, qualcuno provò a mettersi in salvo: chi si calò dalle finestre, chi provò ad attraversare il fumo e le fiamme delle scale per trovare una via d’uscita nel cortile e nella strada.
Noi, che nel frattempo ci stringemmo nella mia stanza, quella più lontana dalla porta d’ingresso, riuscimmo a venire fuori calandoci con le scale dei vigili del fuoco che nel frattempo, insieme ad alcune ambulanze, erano riusciti ad arrivare e a far evacuare l’edificio.

Con le facce illuminate dalle fiamme ci contavamo e ci chiedevamo se tutti fossero riusciti a svegliarsi, anche quelli dei piani più alti, i vari Losacco, Mininno, Milella, e ci si chiedeva con ansia e orrore come avrebbero potuto salvarsi. Ci guardavamo per capire se fossimo feriti. Molti erano anneriti, alcuni bruciacchiati. Non sono in grado di dire quanto impiegarono a spegnere l’incendio, ma ce la fecero e, a parte grossi danni all’ascensore, alle scale e alle vetrate ai piani che esplosero spargendo schegge su tutti i gradini, tutto andò bene.
Ci furono una manciata di intossicati e ustionati, qualcuno fratturato per la caduta durante lo sgombero ma, tra tutti, quella che mi colpì maggiormente fu una ragazza, una giovane mamma: in quell’inferno, avvolse la sua piccola in una coperta e, in pigiama, si lanciò senza indugio alcuno attraverso il muro di fuoco e fumo. Quando uscì in strada aveva ancora la faccia incollata a quella della sua bambina e i piedi insanguinati, tagliuzzati, le si vedevano le schegge di vetro ancora a infilzarle i calcagni. Piangeva senza lacrime, respirava in modo affannoso, come affamata di aria, a bocca aperta. Era viva, ed era viva la bambina.
Dopo l’incendio, l’odore acre e pungente delle plastiche bruciate rimase per mesi e mesi nel palazzo. E per mesi e mesi, ricordo, mi tornava alla mente quella ragazza, la coperta, i vetri, il sangue. Più di tutto il suo coraggio, qualcosa che l’ha spinta a provarci, a rischiare il tutto e per tutto. E se fosse inciampata? Se fosse caduta? Scendeva dal quarto piano, quattro piani in apnea, scalza, al buio, verso le fiamme e il muro di fumo.
Per mesi abbiamo avuto paura di tornare a dormire perché “se dovesse accadere di nuovo?”. Perché è di notte che si fanno gli incubi, è nel sonno che succedono tutte le tragedie, i terremoti, gli incendi. È nel sonno che si muore.
(Sì, non solo di notte ma mettetevi nei panni di un ragazzino che si è visto bruciato vivo nella sua camera e ai tanti pensieri alle cose che mai più avrebbe potuto fare, dire, pensare e scrivere)
(A ogni modo, questo ricordo mi è tornato alla mente dopo aver letto questo libro qui.)
Un pensiero su “Le cose brutte accadono di notte.”