Crossroads, sintesi magistrale delle nostre crisi.

Amiche e amici, come state? Io sto bene, alleluia alleluia! Sono qua a parlare dell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, pubblicato in Italia da Einaudi. La brutta notizia è che è finito (sob!) la bella è che presto arriverà la seconda parte della trilogia di cui Crossroads è solo l’inizio!


Durante l’ultimo booktour, quando mi chiedevano: “qual è il Romanzo contemporaneo (con la maiuscola)?” rispondevo citando Franzen e Le correzioni. Riconfermo il mio voto per lui: Crossroads è un grande romanzo. Nel suo saggio Why bothers? (“Perché preoccuparsi?”) Franzen si interrogava sul futuro del romanzo. Ne ho parlato anche in altre occasioni, viviamo nell’era delle immagini, della serie TV, dei video, a che servono i romanzi? La risposta ce la serve con questo capolavoro: “[è necessario] scrivere il libro per superarlo, che abbia un testo avvincente, sia socialmente rilevante, realista, che offra personaggi forti con una importante profondità psicologica e che sottolinei ciò che un romanzo può e altri media non possono fare”.


Franzen riesce a fare la magia e a mettere insieme tutto questo proponendoci, dopo Fitzgerald e Yates, una delle analisi più avvincenti e approfondite sulla famiglia americana mai scritte, penetrando in modo incalzante su alcuni temi e ossessioni che hanno contribuito a plasmare l’America nell’ultimo mezzo secolo.


Impazza la Guerra del Vietnam e i movimenti hippie. New Prospect, Illinois, si presenta come il fronte dell’ego, dove i personaggi, tutti magnificamente riprodotti, tutti a volte profondamente antipatici nelle loro delusioni, vanità e risentimenti, scendono in campo a combattere per la moralità senza essere moralmente irreprensibili, per le virtù ma da corrotti, all’interno di dinamiche caritatevoli (a favore della pace, dei poveri, dei neri e dei nativi americani) ma sempre, di base, per soddisfare sé stessi e ricavarne una bella ripulita sociale. Crossroads nasconde (e svela) con una cruda metafora la società americana, le sue ipocrisie, le paure, la voglia di riscatto.

È la storia della famiglia Hildebrandt: a capo c’è Russ, pastore di una Chiesa Riformista in una cittadina di provincia nell’Illilnois, invaghito di una giovane vedova della parrocchia e in combutta con Ambrose, il giovane e carismatico responsabile di Crossroads, il gruppo giovanile della parrocchia; poi c’è la moglie Marion (un passato tenuto nascosto che non può restare tale per sempre); quattro figli, Clem che vuole lasciare gli studi per andare a combattere in Vietnam; Becky, la più bella e popolare della scuola in cerca di Dio e di sé stessa; il genio Perry, un QI da 160 che lo terrà irrimediabilmente ai margini della vita “normale” e un più piccolo Judson, che in questo libro vediamo appena (forse tenuto in panchina per il prossimo episodio della trilogia). Tutti i personaggi, affascinanti e complessi, accecati dall’orgoglio, dalla lussuria, dalla rabbia, dalla colpa e dalla vanità, sono presentati in maniera equilibrata e impeccabile. Franzen è sì prolisso ma la sua scrittura avvincente, divertente e anche commovente.


Attenzione: l’autore (bravissimo a non far sentire la propria presenza gigantesca nella storia) non condanna: osserva. I personaggi sono come sono, persone in balia della propria umana fragilità, della loro imperfezione e ambiguità, persone che vogliono essere buone in un mondo con ideali rispettosi ma dagli standard spesso più che pessimi.


Ora, concludo con una personale osservazione, ne parlavo con lettrici e lettori (campionesse e campioni olimpionici di lettura, io in confronto sono ai Giochi Senza Frontiere): non lo so che cos’abbia questo libro, qual è il suo segreto. La storia è una saga familiare già vista col padre e madre in cerca di una fuga (o distrazione) al di fuori del matrimonio, in fuga e in cerca di Dio, un figlio brillante che si rifugia nella droga, dinamiche adolescenziali di coppie che si scompongono e che si ricompongono, i popolari e gli sfigati. Insomma, tutto abbastanza prevedibile e, allo stesso tempo però, spiazzante e coinvolgente. Non ho sottolineato niente, nemmeno un rigo. Non come Yates o Nabokov o Carrère. Eppure sto parlando di un capolavoro. Un libro scritto con chiarezza e credibilità. Non so perché amare questo libro, perché funzioni, dove sia il trucco. Franzen dimostra di conoscere bene il gioco della costruzione del romanzo contemporaneo. Forse una cosa, se proprio dobbiamo: l’autore ha troppo controllo e al lettore non resta niente da ricostruire, da implementare, da co-creare. Come fosse un romanzetto.


P.S.: complimenti sbracciati a Silvia Pareschi che ci ha riservato una traduzione (come sempre) veramente magistrale. Intanto restiamo con l’acquolina in bocca in attesa del seguito e, indeed, della serie TV (che speriamo essere all’altezza).

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi

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