Vite che non sono la mia, o forse anche sì

“Noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene.”

Amiche e amici, come state? Io sto scrivendo a caldo perché altrimenti non posso. Ho appena terminato di leggere Due vite di Emanuele Trevi, pubblicato da Neri Pozza. Ho le lacrime agli occhi a livello Coco by Pixar, per intenderci: una delle cose più belle che io abbia letto negli ultimi tempi.

È un libro sull’amicizia, per me – e, capisco, anche per l’autore – il più vero, il più forte dei sentimenti. Quello in grado di tenere legate a lungo, anche per sempre, le vite delle persone. Più dell’amore.

A innumerevoli esseri umani è dato questo destino, di ottenere molta più felicità dall’amicizia che dall’amore. Ma purtroppo queste persone non si arrendono facilmente, perché come tutte le altre sono vittime dello stesso liquame sentimentale sull’«anima gemella» che fin da piccoli suggiamo dai romanzi, dalle canzonette, dai film. E quindi si innamorano, pensando di accedere a un grado superiore dell’esperienza e alla loro piena realizzazione, e invece stanno solo incasinando la vita che gli tocca vivere.

In poco più di cento pagine, per lo più ambientate a Roma, Trevi racconta del rapporto tra lui e due amici, Rocco Carbone e Pia Pera, scrittori entrambi scomparsi prematuramente, il primo in modo violento, l’altra lentamente per una malattia degenerativa. La narrazione mi ha riportato tra le strade, i tavolini, le piazze, i ciottoli di quella città nella quale ho vissuto, costruito e conservato le mie amicizie più importanti. Di Rocco e Pia non conoscevo la storia né tantomeno il pensiero. Sono sicuro che questo lavoro di Trevi, un po’ biografia, un po’ saggio o memoir aiuterà a scoprire e a conservare le loro opere e a mantenerne gli autori in vita.

“La scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne”

E la scrittura di Trevi è ricercata, forbita ed elegante senza essere mai affettata né cerimoniosa. Sa essere ponderosa come ferro e leggera come piuma rendendo giustizia alla letteratura italiana così strapazzata da migliaia di autori oggi più o meno improvvisati (incluso il presente: me).

Sovrapponibile a Senza verso. Un’estate a Roma per la barese Laterza, dove Trevi ricorda con nostalgico affetto l’amico poeta Pietro Tripodo, anche nel recente Due vite l’autore ci conduce in punta di piedi nell’intimità di una relazione intensa, capace di superare momenti di grave tensione per ritrovarsi, poi, più affiatati di prima: quello che l’amicizia può fare.

Il messaggio di Trevi è pregno, travalica la linea cronologica dei fatti e quella elegiaca dei ricordi, dialogando con il lettore di temi cardinali, come la felicità e la sua assenza, il senso della vita e della morte. Assai interessante come, dopo la scomparsa di entrambi, le vite di Pia e di Rocco non vengono abbandonate all’oblio ma si palesano, oltre che nel ricordo di chi rimane e nella scrittura, anche attraverso la Natura, assumendone le forme: in memoria di Rocco viene piantato un ulivo (una pianta robusta, volitiva, dalla forma imprevedibile, che si spezza ma non si piega), posto in una piazza della Capitale; Pia, invece, lascia un giardino ordinato, con quei fiori e quelle piante che ha curato “come una sua lontana propaggine, una specie di succursale metropolitana”, fino all’ultimo soffio di forza in corpo. In queste due immagini la sintesi di un sottile ritratto psicologico dei due amici, tanto abile a incassare Pia, così “prensile e sensibile, così propensa alle illusioni”, tanto predisposto a colpire Rocco, così incalzato dalle sue Furie. Tanto spigoloso il primo (l’ulivo), tanto seducente, timida e sfrontata la seconda, come una “incantevole signorina inglese” (il giardino).

Le vere rivoluzioni sono trasformazioni. (…) è vero solo ciò che ci appartiene, ciò da cui veniamo fuori.

Cito Keats: “C’è molta gente superficiale che prende le cose alla lettera. Ma la vita di un uomo che abbia in sé qualche valore è una continua Allegoria” e così credo sia approcciarsi alla scrittura di Trevi, dove la descrizione di piccoli episodi di vita quotidiana come trascinare un grosso tappeto arrotolato per chilometri si alternano ad annunci di amici suicidi; dove la ricerca ostinata di sigarette di contrabbando fa da contrappunto a citazioni gaddiane: e numerosi sono i rimandi ad altri artisti della parola che la narrazione di Trevi ci invita a scoprire.

“In una certa misura (…) la felicità dovrebbe consistere in una sempre minore attenzione a se stessi. Altro che cura di sé! Meno sai chi sei e cosa vuoi, meglio stai”

Avevo letto delle opinioni contrastanti su questo libro, alcune anche negative che parlavano di un lavoro disomogeneo, incongruo, attribuendo all’autore una traccia di autocompiacimento e di distacco. Mi sento di non assecondare questo pensiero: io ci ravviso solo un profondo senso di rispetto e di amore nei confronti degli amici scomparsi, espresso con delicatezza ma senza retorica né intenti celebrativi. Mi viene da pensare che se non hai conosciuto l’amicizia vera non puoi comprenderne la profondità. Come chi ha il cuore leggero non può comprendere chi è più sensibile ed è portato a interpretare i gesti altrui come guidati da chissà quale misero opportunismo. E dissento quando si interpreta come “autocompiacimento” il riferirsi ai numerosi randomici inserimenti di artisti con i quali i tre si interfacciano durante le loro giornate più o meno qualsiasi a Roma. Chi sono, oggi, i corrispettivi di Svevo e Joyce, Scott Fitzgerald ed Hemingway, Battiato e Sgalambro (che la scrittura di Trevi mi fa tornare in mente)? Non per niente sono tutti morti.

Io ho provato lo stesso senso di accogliente normalità che ho trovato nella scrittura di Natalia Ginzburg, dove gravitavano i personaggi più diversi, intellettuali, politici e fuggiaschi. E se poco sembra affiorare dell’anima dello scrittore, qui io mi ci rivedo: è un modo per allontanarsi dal dolore della perdita e mettersi lì, a guardare persone, cose e fatti dalla giusta distanza.

Più ti avvicini a un individuo, più assomiglia a un quadro impressionista o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri.

Tiranneggiata com’è dalla ripetizione, la nostra vita ha ben poche possibilità reali di evoluzione, meno ancora di guarigione.

A un certo punto Trevi ci chiede: “Saranno davvero esistite due persone come Rocco e Pia?”, stiamo parlando di persone vere o quello che vale per loro può essere esteso a qualunque soggetto, reale o di fantasia? Anche questa rientra tra le riflessioni dirimenti di Emanuele Trevi che, nell’esprimere l’identità dei due scrittori, riesce a concentrare in loro tutti gli elementi più sensibili, fragili, e nobili (ma anche viziati e contraddittori) dell’essere umano. Possiamo utilizzare lo sguardo di Trevi per guardare attraverso Rocco e/o Pia per vedere, alla fine, noi stessi e così guarire, evolvere.

E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno.

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi

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