
Amiche e amici, come state? Qualcuno mi ha fatto trovare dentro il libro che sto leggendo (in alto) una foto con le mie (all’epoca) bambine. Ho pianto. E ho continuato a versare lacrime leggendolo: Bianco è il colore del danno, di Francesca Mannocchi pubblicato da Einaudi.
È una storia cruda, dura, scritta in modo asciutto, potente e coraggioso. D’altronde, siamo di fronte alla malattia, e a una di quelle malattie che non guariscono mai. A chi ha avuto direttamente a che fare con le lunghe degenze, con le lunghe attese, con il dolore della lenta degenerazione questo libro farà ancora più male. Ma c’è dell’altro: questo libro fa arrabbiare perché ci sbatte in faccia le ingiustizie di una sanità frammentata, ingiusta, sufficiente. Impotente. Dove ciò che è pubblico deve cercare di far quadrare i conti (e i tempi) e ciò che paghi lo puoi avere subito e confezionato in una bella cartellina lucida.
Francesca Mannocchi si mette più a nudo di quanto ti aspetteresti. Non chiede nulla, non chiede aiuto, non chiede pietà, non chiede: parla a sé stessa, come in un diario. Va indietro a cercare di capire da dove le arriva questa sua condizione, se è dovuta alla familiarità, all’ambiente, al caso. Poi ci riporta all’oggi, al vocabolario medico, alle sale d’attesa. Francesca è una giornalista, il suo ruolo è trovarsi al centro dell’azione, dove succedono le cose. In guerra, anche. A un certo punto, però, la sua guerra non è più lontana: è qui. La vorresti abbracciare ma hai paura che vada in pezzi o, peggio, che quell’abbraccio non lo voglia, che lo respinga. Non è simpatica, Francesca Mannocchi. Non è quello che vuole. Il malato è cattivo. Intorno a lei la gente si lamenta di cose qualsiasi, come si fa ad ascoltare tale querimonia quando da un giorno all’altro scopri che il tuo corpo non ti risponde più? Dopo tutto il suo corpo comanda e dice le cose come stanno.
“È il corpo a dire la verità, è il corpo a chiederla. Quando è morbido eppure aspro, quando trasgredisce. Quando è distorto. Quando è inaccettato. È il corpo a fare luce sul come e sul perché. Molto anche sugli altri, perché non mente e rivela paure e intenzioni.“
E il corpo di Francesca dice la verità mentendo: è suo ma lei è altro. Tanti sono i temi in ballo, quando hai tanto a cui pensare. Il corpo. Il corpo la tradisce. Ci chiediamo se è possibile vivere il nostro corpo senza dare conto al giudizio altrui. “È per gli altri che vogliamo essere perfetti, bellissimi, desiderabili. È dagli altri che cerchiamo approvazione. È l’altro che ci vede e vedendoci ci racconta, è l’altro a suggerirci chi siamo. È lo sguardo, dunque, la gabbia?“
A un certo punto, arriva la gravidanza. È questa condizione che ha scatenato la malattia? Può essere. Francesca si riempie di domande. E la società non sembra contemplare lo spazio per una reporter di guerra che deve partire lasciando il proprio figlio a casa. La società pretende che mamma e figlio siano come una cosa sola. E che siano l’espressione della felicità compiuta. Ma è davvero così?
“Non ero una donna, ero l’attesa di un altro essere umano” La gravidanza arriva ma non c’è un interruttore, non c’è uno switch che ti metta in modalità genitore: “Quando nasce un figlio non è detto che nasca una madre.”
“Ero incinta e mi sentivo un involucro, la forma che hai quando sei determinato da un altro. E quell’altro era mio figlio.“
La gravidanza come la malattia si prende il suo tempo, il suo spazio, regola il lavoro, la carriera. Così confuso, il rapporto madre-figlio disorienta.
“Arriverà, come ogni giorno, senza dire una parola, con le braccia aperte a chiedere un abbraccio che trasforma il nostro incontro in una pietà (…) Non diremo niente per qualche secondo, poi Buongiorno amore mio, buongiorno mamma. E poi, come ogni giorno, io mi sentirò benedetta e soffocata”
Altre, sofisticate considerazioni sul tempo, che per chi sente di avere un limite è un concetto dirimente: “Il tempo non ci appartiene più” “Non è tanto non avere più molto tempo, è che quello che abbiamo non ci appartiene. (…) anche quando di tempo ne abbiamo di più non ci appartiene, perché spesso siamo ciechi, non guardiamo abbastanza l’orologio e non ci rendiamo conto che si sta facendo sempre più tardi.”
E, come se non bastasse, il colpo di grazia, il rapporto con i genitori. Sempre loro, da cui tutto origina. Le loro mancanze, le loro nevrosi, le debolezze, le aspettative: tutto ritorna sui figli. Un padre che si è così tanto indurito che non riesce neppure a nominare le cose.
“Lui ha paura delle parole. Se nomina crea. Se non nomina, la malattia non esiste.“
Ho solo accennato alla malattia, con il pudore che merita un tema sempre così difficile da trattare, da guardare. O lo fai con distacco oppure, se sei in qualche modo coinvolto, ci stai male fino alle lacrime, fino all’ultima pagina, ringraziamenti inclusi.
“Chi resta non vuole guardare in faccia la fine, perché la fine è un fallimento.“
La ricerca, nonostante le tante difficoltà, sta andando avanti. Incrociamo le dita, tutti. Perché il bianco? Lo troverete nel libro.
“Perché la malattia è bianca, e la morte pure lo è, e il bianco non si esprime per menzogne. Contiene tutto.”