Care amiche, cari amici, come state? Io bene. Stavo discutendo animatamente con un dissennato energumeno che, preso da chissà quale demone antico, per tutto il tragitto tra la pizzicheria di Gino e la scala per la motobarca, non ha fatto altro che parlare (anzi: di sproloquiare) su Márquez, sulle sue qualità istrioniche (“Un pagliaccio che vuol solo farsi vedere!”), morali (“QUELLA LATRINA!”) e artistiche (“Non vale una minchia!”).
Considerando che non devo convincere nessuno e che, per quanto mi riguarda, è stato uno dei più grandi artisti della storia della letteratura, ho provato a parlargli della Colombia, del realismo magico (la madre era una chiaroveggente) che analogamente possiamo trovare nella nostra cultura popolare, di Macondo e dei Buendia, dei mille personaggi che ha costruito (non credo gli venisse difficile: era il primo di sedici figli, era circondato di soggetti), del suo impegno politico contro Pinochet e gli altri governi sudamericani che affamavano la popolazione, arricchivano i cartelli della droga e calpestavano i diritti civili. Márquez lo faceva sempre, non soltanto come periodista: i suoi romanzi, infatti, sono intrisi di allegorie, di simbolismi, di messaggi drammatici e di amara ironia, e con questi (e molti altri) strumenti, Gabo (il suo soprannome, visto che il nome Gabriel José de la Concordia García Márquez, che caz: la maestra lo chiamava e già era suonata la ricreazione), criticava e denunciava e, non a caso, è diventato uno dei più popolari e stimati scrittori della storia (*inserire qui i numerosi romanzi, i saggi e i racconti). Con il suo Cent’anni di solitudine (considerata la più importante opera in lingua spagnola dopo il Don Chisciotte della Mancia), poi, ottenne il Premio Nobel per la letteratura.
Dopo quel botto, tutti i suoi detrattori (ivi incluso il mio lercio compagno di strada) lo aspettarono al varco ma lui non deluse le aspettative e tirò fuori questo L’amore ai tempi del colera (qui in una delle numerose edizioni Mondadori), romanzo (come dice il titolo) d’amore: si racconta la storia dell’antica passione di Florentino Ariza nei confronti di Fermina Daza, fin da quando lei era solo un’adolescente e via via fino a quando non invecchiano entrambi e lei è tornata single (leggi: vedova). Il padre di lei si oppose al fidanzamento dei due giovani, spingendo la ragazza a maritarsi con lo scapolo più ambito della città. Il carattere forzoso di questa cosa, ovviamente, non portò l’amore se non dopo lunghi anni di banale routine e fatti che non stiamo a raccontare, ma nel frattempo ispirò il giovane Florentino a farsi il mazzo fino a diventare ricco proprietario di una compagnia di navigazione. Quando i due si ritroveranno saranno ormai anziani, però lei è sola e lui è ricco quindi BOH?! EVVIVA L’AMORE? Lo scopriremo leggendo il libro.
Io, per quanto mi riguarda, mi commuovo all’idea di dentiere lasciate a pomiciare sul comodino dentro un barattolo tra bollicine di frizzante Alka Seltzer.
“Cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese“
(pensateci un po’, voi maschietti che non vi ricordate nemmeno i compleanni)
“Ma è un romanzo anche di colera!”, mi interruppe il mio nerboruto interlocutore, “E quello è una LATRINA!” disse strappando un grosso morso da un filone di pane con mortadella, insisteva dicendo che a lui non interessava nulla e che: “Feffe fovvive mave” (*”Deve morire male”).
Al che gli ho detto che, poveraccio, era già morto! (faccine tristi) Ma forse lui, preso com’era dalla rabbia per le vicende sportive degli ultimi giorni (poco prima mi stava raccontando che Valentino Rossi era caduto in gara, una roba di Moto GP che io non seguo e non capisco), non ci aveva pensato o aveva dimenticato.
Rimanemmo in silenzio a mangiare panini. Il pensiero malinconico verso ciò che non c’è più, la motobarca come battello che ci veniva incontro e lo sguardo nell’acqua del porto come fosse il rio Magdalena che, a piccole onde, ci sbatteva sui piedi.