Beati voi, santi inquieti.

«Ho discostato una porta e quel che ho visto ha suscitato nuove domande»

Amiche e amici, come state? Io bene, come si sta quando finisci di leggere qualcosa di soffice, di delicato, con un buon profumo di fiori. Sto parlando di Beati gli inquieti, il nuovo romanzo di Stefano Redaelli, pubblicato da NEO Edizioni. È un libro che lo finisci e ti rimane impastato in bocca per giorni, ti riempie di interrogativi.

Da autore, la prima cosa che mi ha toccato è l’operazione di verità. È qualcosa che a me fa impazzire (SCUSATE!). Spiego: quando ho scritto Doppie punte ho passato anni (non continuativi) tra saloni di parrucchieri ed estetisti e tra i membri della comunità LGBT+ per capirne le dinamiche e tutto. E poi parlarne. Il collega Hemingway (che saluto) invitava a scrivere “solo di ciò che sai”, così Stefano Redaelli si reca in una struttura residenziale di riabilitazione psichiatrica, in provincia di Chieti, condividendo per un periodo una stanza con dei pazienti e poter vedere da vicino e descrivere, standone a contatto, la devianza, la follia. Stringe un patto con la direzione e, dopo una rassicurazione di fiducia e prudenza, entra come ospite/finto paziente nella Casa delle Farfalle.

È un film: durante il suo soggiorno, il protagonista (nel libro lo scrittore Antonio) prende finte medicine e partecipa a tutte le attività insieme agli altri personaggi che popolano la Casa, ciascuno di essi con la propria voce e le proprie manie o ossessioni: Simone l’intellettuale olistico, Marta che gioca a nascondino coi fiori, Carlo che ha fatto centomila miliardi di mestieri, Angelo l’artista che ha inventato le cure per tutte le malattie, Cecilia che scrive poesie si trucca per ore per qualche appuntamento…

L’autore ci arriva dopo un periodo, dice, “di profonda inquietudine”, durante il quale sentiva la mente affollata di voci e tra queste la voce di Dio che chiedeva di essere ascoltata. Per superare questo turbamento si dispone in ritiro spirituale coi padri ignaziani. Un percorso di meditazione struggente che lo segnerà e che vedrà riproporre riflessioni profonde sul rapporto tra l’Uomo e il Divino. Percorso che, accidentalmente, continuerà all’interno della struttura, tra gli altri pazienti. Si lascia anche crescere la barba. «Sciatteria», dirà la direttrice. «La barba ci rende noi stessi e ci accomuna a Dio», saprà dimostrare.

Scrivendo, rimetto insieme i pezzi. Non è una cura, è un movimento. Tra malattia e beatitudine. Per capire chi sono. Dirmi. DI-IO. DIRE IO. È tutto qui. È trascendenza. È scrittura.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malattia mentale stilato dal Ministero della Salute, in Italia gli assistiti dai servizi specialistici psichiatrici sono 837.027, un numero enorme. Ma dove sono? Perché nessuno frequenta i matti? “Perché sono nudi, ci vedono e dicono sempre la verità”. Ricordate il John Givings di Revolutionary road, l’unico a dire le cose come stavano al di là delle apparenze luccicanti e borghesi? E leggendo mi è venuto in mente un altro libro, che poi diventò un’opera teatrale e dopo anche un film: La pecora nera di Ascanio Celestini, dove il narratore protagonista passa trentacinque anni in un ospedale psichiatrico tra quelli che lui non chiama matti ma santi. Santi. Un caso? E quante altre volte è stato possibile sentire direttamente la voce di questi santi? Rare. Da queste ricerche viene fuori qualcosa che fa rizzare i peli delle braccia: le angosce, le paure che hanno i matti sono le stesse di chiunque altro, anche le mie, le vostre. Cambia solo l’interfaccia, la modalità di narrazione. Ero poco più di un ragazzo quando lessi il bellissimo Diario di una schizofrenica, di Marguerite-Albert Sechehaye da cui è stato tratto il premiato film di Nelo Risi. Io Renée non la dimenticherò mai, era lei a descrivere il suo inferno. Renée SPOILER ALERT! guarisce ma solo dopo che chi ce l’ha in cura si affaccia nei suoi incubi prendendoli su di sé, integrandoli ai suoi.

Io ho intrapreso la carriera della follia. Faccio ricerche sui folli, abito con i folli, parlo con i folli, scrivo un libro sui folli. La carriera della follia è iniziata appena.

Entrando nella Casa delle Farfalle, Redaelli fa un lavoro di integrazione e di abbattimento dei pregiudizi (penso al padre che gli suggerisce di farsi una polizza contro gli infortuni o al patto di prudenza con la direttrice) per scoprire, lasciandosi assorbire dai luoghi e dalle persone, che le differenze tra dentro e fuori sono molto meno marcate di quanto si creda. Seguite l’autore nel suo percorso, apprezzatene il viaggio. C’è un bel passaggio, un capitolo sul concetto di deserto, il deserto presente in maniera insistente nelle Scritture, dove Dio mette alla prova il Popolo di Israele e Gesù stesso. “I folli parlano con Dio, con gli animali, con gli angeli. Sono provati, ricevono continui imperativi, leggi da rispettare”.

La parola deserto deriva dal latino desertus, participio passato di deserrere: abbandonare, lasciare in abbandono. L’etimo è lo stesso di disertare, desertare, intensivo di deserrere, il cui primo significato era: guastare per ampio tratto, devastare, spopolare. (…) Si fiorisce in Paradiso. Questo è solo un deserto.

È un libro soffice, delicato, con un buon profumo di fiori, che lo finisci e ti rimane impastato in bocca per giorni, ti riempie di interrogativi. Una volta terminata la lettura provate a ricominciare da capo: tutto torna.

«Vuoi ridere o piangere?»

«Ridere».

«La barzelletta più bella è l’amore».

Michele Lamacchia

Le parole creano mondi

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