“Le [nostre] pance erano simili, noccioli posati a metà di un esile gambo, il ventre gonfio dei tipi secchi”
“Vari son degli uomini i capricci: a chi piace la torta, a chi i pasticci!” (saggio popolare)
Amiche e amici, come state? Io bene. Ero qui con i miei amici peluche che seguivamo sul web un appassionato e trasversale dibattito sul concetto di “gusto” quando, a un certo punto, una delle convenute si è così espressa: “Il principio del non discutere sui gusti è un pessimo principio: i gusti sono importanti, poiché dipendono da strutture oggettive” e ancora: “Rispondere che «sono gusti» vuol dire deporre il problema.” (V. Nappi)
Può piacere o non piacere. Il gusto è soggettivo, d’accordo, ma esiste una base di unanimità oggettiva?
Mi chiedevo questo dopo aver letto con interesse Spatriati, il libro del pugliese Mario Desiati, edito da Einaudi.
“Attraversai lo spazio tra noi senza toccare col piede le fughe tra una mattonella e l’altra”
Questo libro, che conferma la buona penna dell’autore, mi è stato consigliato con molto entusiasmo da qualcuno. Non fossi stato pugliese e intriso di questi paesaggi (e passaggi) e non avessi fatto fatto le mie esperienze da lettore (dove tutto mi pare già letto) e da spatriato, sicuramente mi sarei espresso in modo meno neutrale, più recensionista.
Tuttavia, Spatriati mi ha riportato alla mente periodi della mia vita in cui mi abbuffavo di storie, macinavo le trasgressioni metropolitane quelle più dure di Isabella Santacroce e le soft di Banana Yoshimoto, cominciavo a viaggiare, mi allontanavo dal provincialismo da alto-paesanesimo della mia regione, aprendomi a esperienze multiculturali europee. Tutto era possibile, nuovo, stimolante, invitante e io curioso. Ogni cosa, però, va contestualizzata.
“Lì dove si finiva avvinghiati in un unico corpo, dove il pudore si polverizzava, dove si arrivava a piangere perché l’acme del dolore tocca l’acme del piacere. Le dissi che lì avevo smesso di aver paura di ogni malattia. Chi entrava in questo posto si liberava dal male che aveva dentro sperimentando un altro tipo di male. Ho visto con i miei occhi il superamento dei limiti del corpo umano, il viaggio verso l’estremo.”
Se dovessi parlarne oggi, troverei stucchevole questo voler essere “anticonformisti”, diversi a tutti i costi. Poiché tutto sarebbe già visto e sentito. Ciò che avrebbe potuto essere un trend negli anni ’90, dovrebbe rimanere negli anni ’90 (oppure superarlo in potenza). Non farei numerosi richiami alla scrittura di quelle autrici già citate senza, peraltro, riuscire nemmeno da lontano a raggiungerne la forza evocativa.
Ricordo l’importanza dei dialoghi che devono essere veri, pieni e non sembrare forzati.
– Francesco, sai che per maledizione di Afrodite, Psiche poteva amare Eros soltanto al buio?
– Non so nulla, imparo sempre tardi.
– Nonostante i suoi cattivi auspici e nonostante lei non vedesse Eros, si amarono profondamente rimanendo nell’oscurità (…) Le sorelle invidiose del suo amore dissero a Psiche di accendere un lume per scoprire chi fosse il suo amante misterioso. Psiche dopo lunghe pressioni cedette e quando scoprì che il suo amante era niente di meno che il dio dell’amore in persona, cominciarono i guai per tutti.
– C’è una morale?
– Le morali lasciamole ai cattivi maestri.
– Poca roba, – commentò. – Lo apro io. Se è una bomba salvate le penne e io invece finisco flambée
Le esperienze vissute dai protagonisti anche: mi aspetto che parlarne serva ad arricchire la storia, a condurre un percorso, anziché essere buttate là, senza un fine (che, ripeto, dal mio punto di vista fosse un libro di trent’anni fa avrebbe un senso), rimanendo su carta solo come un elenco di luoghi comuni di quei tempi, un dagherrotipo anacronistico dei giovani sconvolti. E, da pugliese, troverei altrettanto ridondante la narrazione delle campagne, dei muretti a secco, degli ulivi, del paesello, di chi parte, di chi resta, e l’accenno alla malavita e alla malapolitica, con sottotrame aperte e lasciate sospese, inconcludenti (le “pistole” che non sparano). Da lettore, una cosa che poi non amo, in generale, sono gli spiegoni qui numerosi e gli infinti, indistinti dettagli delle descrizioni, i fotogrammi che anziché arricchire la storia appesantiscono la narrazione.
“Mi tese il pallone liscio e pulito, odorava di gomma. In quel momento pensai fosse l’oggetto più prezioso al mondo. Aveva una storia da raccontare.”
– Non puoi capire il piacere che provo davanti alla finestra con questi crepuscoli.
– Anche qui ci sono crepuscoli (…)
– Ci sono cresciuta e mi hanno fottuto un sacco di volte, ma sembrano colori sfregati col polpastrello, ora invece ho bisogno d’un cielo disegnato col diamante.
E ancora, non amo le continue e disarmanti banalità che possono infarcire una lettura già piatta e noiosa. Claudia che si mette con un uomo più grande di lei e questo che le chiede di vestirsi con la gonnellina e i calzettoni da scolaresca… Cioè, capisci cosa voglio dire? Un cliché talmente rodato che me lo aspetterei da un autore ingenuo e alle prime armi (tipo me) e non da uno in gamba, avviato ed esperto come il nostro. Da autore, poi, avrei almeno cura che le parole riportate come citazione in quarta fossero le stesse del libro (ma qui siamo proprio nel campo della puntarca, me ne rendo conto) oppure avrei fatto attenzione a non citare aerei che in Puglia non hai mai volato (deformazione professionale super-puntarca level pro).
“Mi dispiace, Claudia, ma oltre l’orizzonte che vediamo non possiamo andare, e chi viene da lì resta con noi solo il tempo necessario per capire che esisteranno sempre frontiere da onorare.”
Il libro di Desiati parte molto bene, si fa apprezzare per un tocco corposo ed evocativo ma così, rilanciato in modo discontinuo nel libro, lo stile prosaico sembra generare degli attriti nella scorrevolezza del testo. Non fossi stato pugliese e non avessi avuto le mie esperienze personali, sia come lettore che come umano, probabilmente avrei potuto parlarne (e in modo diverso).
“Claudia, non avevi sbagliato niente proprio perché avevi sbagliato tutto, avevi fallito sempre e le volte che ti avevo seguito erano state le uniche in cui ero stato davvero felice”
Ero tentato (cosa che, come sapete, è accaduta raramente nella mia carriera di lettore e con altri nomi di prestigio come Joseph Conrad, Donna Tartt, William Golding, Don Winslow, e qualcun altro), di interrompere la lettura e conservare un margine di speranza, di illusione: lasciare un finale aperto in questa avventura. Ma il libro, lungo il giusto (250 pagine circa più un’altra manciata di interessanti note alla fine di questi), mi ha portato alla sua conclusione.
Ne consiglio comunque la lettura agli appassionati di narrativa italiana e non, a chi vuole divertirsi a contraddirmi, agli spatriati come me, ancora in giro senza una casa dopo tredici traslochi tra mondi diversi con la valigia in mano, a chi ama la Puglia (con le sue contraddizioni, i suoi stereotipi, i trulli, le tarantelle e l’olio buono).
“Entro nel palmento, l’acqua bolle e ci faccio cadere dentro gli spaghetti, l’odore dei pomodori passati è formidabile. Cinque minuti, il tempo della cottura al dente, e poi un paio di minuti per infiorare il piatto con tre foglie di basilico”
Una cosa va detta: “Deve ancor nascere quel cuoco che possa contentare tutti i gusti”.